martedì 22 maggio 2012

Alcuni giorni fa

Alcuni giorni fa, invitato ad una lezione per il modulo “stage all’estero” della SUPSI, parlavo nuovamente della Bolivia e del mio lavoro da educatore di strada nell’alchemica città di Cochabamba.
Uno dei concetti emersi durante la discussione, dopo la presentazione alla classe di studentesse in partenza, ha toccato dei punti che sono stati in grado di farmi tornare indietro nel tempo.
La professionalità di un volontario esige una scissione fra ciò che è “l’appassionamento” per il paese che lo ospita e ciò che invece gli fa amare la cosiddetta “cooperazione internazionale”?

Innamorarsi della nazione straniera o innamorarsi del proprio ruolo composto da ambivalenza in formato aeroporto e regolari lacrime d’addio? Innamorarsi di entrambe le cose forse…non lo so.
Sono ormai consapevole del fatto che fare il cooperante non significa solo spostarsi per il mondo, affrontando terreni impervi o dinamiche relazionali curiose.
Sono tornato in Ticino da sei lunghi mesi; da novembre ad aprile ho fatto il barista, pur praticando l’antica arte della cooperazione quotidianamente; raccontando delle mie esperienze boliviane ad ogni disoccupato bighellonante e ad ogni amante di Fendant mattutino. Solo da un mese ho ripreso a lavorare come educatore di strada, eppure non mi sono mai sentito lontano dalla strada, mio contesto lavorativo per eccellenza. Solo ora scorgo e sperimento la potente ripercussione positiva di ciò che ho fatto, vivendola quotidianamente nell’informalità della mia routine ticinese. Penso ai ragazzi che seguivo, penso a tutti i loro nomi e ai racconti che ho scritto per loro e per voi e soprattutto per me. In ogni ora del giorno penso a quello che ho vissuto ed è come un terreno intoccabile e intangibile che mi concede spazi meditativi puliti e riservati. È bello nella sua intensità paradossalmente dura.
Francamente solo ora inizio a valutare gli effetti benefici di un’esperienza durata un anno.
I racconti sui ragazzi di strada “cochabambini” proseguono settimanalmente, la cooperazione assume ora una forma di scambio più leggera, sgravata dalla responsabilità della presenza, dalla pesantezza di talune immagini. Leggera nel fisico, s’intende, semplicemente perché io non sono più in Bolivia, ma costantemente impegnativa sul piano mentale e ogni tanto del coinvolgimento emotivo.
Ieri ad esempio, ho parlato con il mio ex collega e volontario tedesco Johannes. Attualmente il ragazzo di vent’anni si trova in Bolivia, ci è tornato a distanza di alcuni mesi dalla sua partenza.
Johannes mi ha aggiornato, con quel suo modo un po’ tagliente e apparentemente cinico, su tre situazioni specifiche delle quali è venuto al corrente.

Il Gatto si è suicidato; Karen è incinta del Gatto; il Soldato è in un centro di recupero da molti mesi e due settimane fa finalmente lo hanno operato alle gambe (sono stati trovati i fondi per l’intervento).

Nella vita di un cooperante queste tre informazioni assumono un significato coinvolgente, in grado di influenzare l’umore e a volte perfino le scelte quotidiane.

Ho scritto del Gatto diverse volte, ma chiaramente, ancor prima di diventare un personaggio nominato nei miei racconti, il Gatto era un amico, un ragazzo in situazione di strada con cui ho lavorato per un anno.

Un cooperante dunque deve o può innamorarsi del suo lavoro, così come del paese che lo ospita, consapevole del fatto che certe avventure possono fare male…ma il vero amore mica finisce. 

Ciao
Matteo