sabato 30 ottobre 2010

Attività extra-ordinarie

Sfortunatamente, presa dall'entusiasmo, mi sono dimenticata di fotografare i bagni terminati...però questa foto può rendere l'idea di ciò che è stato fatto


Venerdì 22 ottobre l’equipe di “educar es fiesta” è stata impegnata nella costruzione di due bagni ecologici nella sede di Taquiña.

Il procedimento è semplice ma ha richiesto il lavoro di tutte le persone attive nell’associazione per esser ultimato in tempi brevi (una giornata).

Innanzitutto il primo passo è stato quello di ripulire la zona dove avrebbero dovuto sorgere i due bagni, dalle scorie umane che i vari muratori, imbianchini, pittori, vetrai e piastrellisti hanno lasciato nel corso della costruzione della sede adiacente…e fortunatamente questa è stata la parte più spiacevole.

Successivamente si sono costruite due fosse, ognuna della grandezza di un bidone (per farvi capire la grandezza pensate ai barili di petrolio più o meno). All’intero si sono posti appunto due bidoni, riempiti entrambi con calce, carbone e sabbia. Sulla superficie dei bidoni è stato fatto un buco della grandezza di quello dei normali bagni, e sopra vi abbiamo collocato una classica toilette bianca. Il secchio è dunque da riempire.

Il lato positivo della costruzione di questi bagni, oltre all’evidente economicità, sta in diversi fattori. Innanzitutto non necessitano di acqua e di una conduttura fognaria; non inquinano dunque le acque e le falde freatiche, poiché tutto rimane nel bidone sottostante. Inoltre una volta che le scorie si sono asciugate e seccate (grazie alla presenza degli elementi citati in precedenza), può essere utilizzato come fertilizzante per piante e fiori. L’assunzione di medicamenti da parte dell’uomo infatti non permetterebbe di utilizzare questi scarti per concimare orti o frutteti.

Una volta terminati i bagni, è stato il momento di costruirci attorno le pareti, con leggere lamiere di ferro,
e fortunatamente per quest’operazione l’equipe ha a disposizione uomini forti ed apparentemente esperti.

La giornata è trascorsa velocemente, in un clima familiare ed amichevole. Molte sono le attività extra che l’equipe di “educar es fiesta” si impegna ad affrontare con regolarità, e sempre rimango piacevolmente sorpresa di come le persone non formalizzino il fatto di essere psicologi, direttori, educatori, o esperti di tutt’altra cosa. Il bene dell’associazione è visto come il bene comune di tutta l’equipe, anche se genera lavoro straordinario rispetto alla propria professionalità.

E per terminare questo breve post, aggiungo che il lunedì precedente, 18 ottobre 2010, l’intera equipe ha lavorato un’intera giornata per smontare il circo El Tapeque che necessitava si alcune migliorie; e lunedì 8 novembre saremo pronti per rimontarlo.

lunedì 25 ottobre 2010

Il carcere di San Sebastian, Cochabamba


Foto1: le produzioni dei detenuti, esposte a ridosso del Parco San Sebastian
Foto2: vista sulla facciata del carcere San Sebastian


Come prima cosa vorrei scusarmi (anche se solo per retorica). Scusarmi perché questo lungo racconto sarà costruito con un linguaggio un po’ più romanzato e coinvolto rispetto a quello che uso solitamente. Tengo all’oggettività delle informazioni che vi inoltro; il fatto è che oggi ho visitato un luogo molto particolare. Sono uscito dal carcere San Sebastian di Cochabamba da circa un’ora…e ho deciso che questo post lo vorrei scrivere con la pancia, certo senza mancare di fornirvi nozioni realistiche e veritiere potenzialmente interessanti.

21 ottobre 2010, visita ad un ragazzo

La pianificazione settimanale parla chiaro, oggi sarebbe stato “il giorno del carcere”; vago in cerca di conferma perché quasi mai le giornate seguono la pianificazione settimanale prestabilita. Invece oggi la programmazione fa stato, chissà per quale sorta di alchimia cosmica, sarei entrato nel principale carcere di Cochabamba, con lo scopo di visitare un ragazzo di strada che è stato da poco rinchiuso.

Sulla tematica del carcere mi sono specializzato negli anni; ho letto romanzi autobiografici, molti; ho letto racconti, articoli, testimonianze ed interviste; ho visto documentari e a mia volta ho scritto del carcere. Questi approfondimenti in realtà sono dovuti ad un uomo che si chiamava Edward Bunker, ex carcerato, scrittore, attore; colui che prima di qualsiasi altro narratore, mi ha fatto amare le lettere, la parola scritta (cercatelo, conoscetelo). Gran parte della mia cultura (NON do per sottointeso il fatto che ne possa usufruire in grandi quantità), nasce attraverso i racconti che Bunker ha scritto sul carcere e sulle vite criminali, marginali. Inevitabilmente dunque, la mia visita odierna, è stata accompagnata da immaginari e fantasie, nonché dal celato desiderio di fare incontrare il pensiero con la realtà.

Camminando verso il San Sebastian inizia a piovere, le prime gocce destano in me un ansia inaspettata. Di cosa ho paura? Di entrare in un luogo che è nato per sopprimere la libertà degli uomini. Banale, scontata, trita e ritrita paura…ma è così, la sento in pancia, fa impressione.

Il collega che mi accompagna si ferma all’improvviso.

-Aspetta, mi controllo la borsa, non vorrei che ci trovassero qualcosa di illegale durante la perquisizione d’entrata-

Non capisco se scherza, o cosa voglia dire, ma la sua affermazione non mi serve da ansiolitico. Lo guardo mentre rovista affannato. Anch’io, senza un motivo sensato, controllo il mio zaino; una volta finito, ripeto l’operazione, più per compulsione che per utilità.

Una volta giunti all’esterno del carcere, scopriamo che una notevole colonna di persone sta aspettando l’apertura dell’orario per le visite, ci mettiamo in fila. Durante l’attesa la mia ansia si fa meno generalizzata, ma più precisa. Il San Sebastian è situato a ridosso dell’omonimo parco e dell’omonima collina (vedi post precedenti); è una grande e cementica pancia in decadenza, il suo colore giallo morto, forse verniciato per originale mano dei portoghesi durante i secoli del colonialismo (penso ironicamente), richiama a qualcosa di burroso, deteriorato, viscido quando il clima è piovoso. La polizia è ovunque, uniformi verde oliva, sguardi severi, camuffata nullafacenza, occhiali da sole alla Silvester Stallone, imperlati di gocce di pioggia. Ho timore di quelle divise, di quei secondini che ci osservavano mentre aspettiamo sotto la pioggia di entrare. Quei poliziotti mi fanno più paura dei ragazzi con cui lavoro. Le loro facce, la loro reputazione, le storie di abusi di potere che quotidianamente mi raccontano i ragazzi…gravi abusi di potere. In fila con me e con il mio collega ci sono altri uomini, donne e bambini, siamo in tanti, in tutto forse una cinquantina, e altri continuano ad arrivare, nessuno parla; le guardie ogni tanto ci comandano uno spostamento con gesti muti.

In tutto aspettiamo circa mezz’ora, durante questo tempo noto che molte persone si posizionano sul marciapiede di fronte al carcere e rivolgendo lo sguardo verso le finestre sbarrate del fatiscente edificio fischiano…ai fischi quasi sempre c’è risposta e allora le persone sul marciapiede iniziano a dialogare con un carcerato o con l’altro, chiedendo informazioni su quello o quell’altro, rispondendo a domande più o meno gridate, domande comuni. Sempre sul marciapiede di fronte all’entrata del carcere, sono esposti manufatti costruiti dai carcerati, letti di legno e cucce per cani; il tutto si sta infradiciando, devono averlo lavorato con una lacca impermeabile, quel legno.

Quando arriviamo a due o tre posizioni dall’entrata, una signora incolonnata davanti a noi ci avverte sussurrando, del fatto che i telefonini non bisogna portarli dentro.

-Certo signora, lo lasceremo ad una guardia qui all’entrata-

-No, se lo volete rivedere vi conviene portarlo al chiosco qua di fronte, ve lo curano in cambio di un peso-

Il mio collega fa una corsa e raggiunge il chiosco, il responsabile ritira i due telefonini con i due pesos e rilascia un biglietto con un numero scritto a mano. Ora siamo davvero pronti per entrare.

-Ci sei già stato qua dentro?- chiedo con voce bassa al collega boliviano, a sua volta palesemente agitato.

-Si-

-Per visitare chi?-

Mi guarda sogghignando amaramente, ma non mi risponde…le interpretazioni indirizzate al suo mutismo impazzano nel mio cervello.

Tocca a noi, raggiungiamo la tettoia dell’entrata, per noi la pioggia cessa; la prima guardia ci accoglie con fare spavaldo e gestualità veemente. Controlla il mio documento boliviano provvisorio, ho un permesso di un anno in qualità di tecnico dell’educazione. L’ufficiale esprime subito scetticismo.

-Perché sei qui?- mi chiede alzando lo sguardo e fissandomi da sotto i Ray Ban.

-Visita amicale- Rispondo io prontamente. Il mio collega mi ha messo in guardia rispetto al fatto che non si può entrare nel carcere in qualità di educatori dei ragazzi incriminati o rappresentanti di una Fondazione che lavora nel sociale, ma solo come amici del carcerato…per il primo caso si tratterebbe di un intervento ufficiale, ci vorrebbero gli adeguati permessi e la procedura richiederebbe mesi, la burocrazia è molto lenta.

- Ok ma…perché sei in Bolivia?- insiste l’uomo in uniforme militare, come se questi fossero fatti suoi.

-Lavoro temporaneo- questa mia seconda risposta, di fatto poco esaustiva, non convince il secondino, che però mi fa cenno di passare, forse memore del fatto di non essere il presidente di questa nazione.

Il secondo guardiano è colui che riscuote i soldi dell’entrata, cinque pesos in cambio di un lasciapassare verde. Non rilasciano ricevute di nessun tipo, non vedo casse o borsellini, solo la mano del poliziotto che scivola in una tasca dei suoi pantaloni, adagiando la moneta sulla fodera interna già zeppa di metallo tintinnante. Mentre osservo questa operazione mi rendo conto che tutto in quell’atrio è caos: gente che entra, gente che esce, un cancello di legno mi lascia uno scorcio sul cortile a cielo aperto interno del carcere, è affollatissimo di detenuti, loro famigliari, persone incolonnate, sedute, appisolate; mi raggiunge un pungente odore di catrame, noto un piccolo cantiere attraverso il cancello di legno, nel patio interno stanno costruendo una grande tettoia, la stagione delle piogge è prossima. Improvvisamente un altoparlante chiama ad elevato volume il nome del ragazzo che siamo venuti a visitare. La cosa mi sorprende e mi sembra strana, perché l’altoparlante dice che la persona in questione deve recarsi immediatamente nella cella di punizione. Il mio collega ed io ci guardiamo, ma non abbiamo il tempo ne la possibilità di chiedere informazioni in merito, è giunto il tempo della perquisizione di entrata ed è richiesto il silenzio. Un secondino controlla lentamente il mio zaino, altri due sono seduti e parlano di informatica.

-Cos’è questa?- il poliziotto che sta perquisendo il mio bagaglio smorza la mia voglia di guardarmi attorno.

-La chiave di casa mia- rispondo cortesemente.

-E questo?-

-Un gel disinfettante per le mani-

-E questo cos’è…è chimico?-

-È crema solare-

-È perché sei bianco no?- ride e guarda gli altri due secondini, anche loro sogghignano compiaciuti.

-Si, è per questo- rispondo sorridendo svogliatamente. L’impressione che sento nel petto, le scene di vita comune seppur selvaggia che sto vedendo all’interno del patio, il ghigno beffardo e rilassato delle guardie, tutte cose che mi fanno pensare che questo luogo è una farsa, questo luogo non è un carcere in cui si rispettano i diritti delle persone e la contestabile filosofia della detenzione, questo luogo è una grande e cementica pancia sulla quale molti ci marciano e nella quale altrettanti ci marciscono.

Superiamo anche la perquisizione, ci stampano un timbro sul braccio, ci fanno oltrepassare il cancello di legno che ho notato poco fa, siamo a Babilonia. Un altro secondino ci chiede altri cinque pesos, in braccio tiene un gatto. Paghiamo e gli chiediamo informazioni sul detenuto che cerchiamo. Ci conferma che è in punizione e ci indica la via per la sua cella di isolamento, ci incamminiamo...semplicemente ci incamminiamo, soli. Nel patio interno c’è un bar ufficialmente analcolico e una cucina che sforna pietanze di ogni tipo, i carcerati camminano liberamente, telefonano con i cellulari, si rincorrono, si rasano, si baciano con le ragazze che sono venute a visitarli, di guardie all’interno non se ne vedono, è un quartiere alternativo e ghettizzato di Cochabamba, nulla più. Attraversiamo il cortile ed entriamo in un corridoio piuttosto arcano, in fondo al quale un poliziotto sta dormendo su una sedia…ci vede arrivare, gli spieghiamo chi stiamo cercando e lui scosta una coperta appesa al soffitto che si trova al suo lato, il telo funge da porta…oltre l’improvvisato varco vediamo il locale che contiene la cella di isolamento. La stanza è alta e buia, dalla coperta che funge da porta circa tre metri ci separano dalle sbarre. All’interno della cella ci sono undici detenuti, li scorgiamo perché una lampadina svolge svogliata il suo dovere dentro la gabbia; la cella misura circa dodici metri quadri. Quasi tutti gli uomini stanno in piedi. Il ragazzo ci riconosce ed è molto felice di vederci. Cerca un buco fra le strette ed irregolari sbarre per far passare la mano, su consiglio di un altro detenuto più anziano lo trova sul fondo, vicino al pavimento, ci salutiamo inginocchiandoci. Mentre parliamo noto che un recluso sta fumando erba e uno sta confezionando dei sacchetti di una sostanza che non riconosco perché celata dall’oscurità…sigilla le piccole confezioni di plastica con un accendino.

-Pensavamo di parlare un po’ con te ma come si fa se sei qua dentro- dice il mio collega bisbigliando intimorito.

-Mi hanno detto che devo restarci fino a domani, non ho risposto all’appello, non ho sentito quando mi chiamavano…ma se pago il sergente mi fanno uscire subito e possiamo andare a parlare al terzo piano, sopra al patio-

Il mio collega tira fuori dieci bolivianos e li passa con cautela al ragazzo, gli altri detenuti in isolamento indirizzano lo sguardo sull’operazione.

-Di che Fondazione siete!- ci chiede a voce troppo alta un uomo nella cella.

-Non siamo educatori, siamo solo amici- rispondo, tornando poi a concentrarmi sul nostro conoscente e facendogli cenno di procedere.

-Signor sergente, mio sergente!- Chiama il carcerato che stiamo visitando.

Dopo un notevole tempo un poliziotto esce da una porticina della quale non avevo neppure notato la presenza, è assonnato, ha gli occhi gonfi.

-Cosa vuoi- dice senza neppure guardare me e il mio collega.

-Signor sergente, mio sergente, mi piacerebbe uscire per parlare con questi miei amici, qua ci sono i soldi-

Temo che qualche altro detenuto spifferi la questione dei soldi o alluda al dubbio che la nostra sia una visita di lavoro. Non accade nulla di tutto ciò.

-Non fare stronzate- dice il soldato aprendo la porta della cella quel che basta per far uscire il ragazzo.

Il sergente intasca i soldi, per lui il mio collega continuiamo a non esistere.

Tutti e tre torniamo nel grande patio interno a cielo aperto, solo allora noto che il cortile è circondato da tre piani di terrazze sopraelevate, sulle quali è posizionata la gran parte delle celle. Dalle ringhiere si sporgono una miriade di detenuti, alcuni dei quali ci salutano…sono ragazzi che in precedenza ho conosciuto per strada, finiti dentro per crimini minori, o magari un po’ più maggiori.

Il giovane ci conduce su per delle scale affollate, occhi ci fissano, voci ci parlano. Raggiungiamo un locale relativamente tranquillo, nel quale diversi bambini giocano pacificamente, solo allora l’amico ci abbraccia, ci ringrazia per essere venuti a trovarlo, ci racconta per filo e per segno la storia che lo ha condotto all’incarcerazione, ci chiede quanto dovrà restare...noi non lo sappiamo.

Il ragazzo faceva parte, fino a tre settimane fa, del gruppo di ragazzi in situazione di strada dell’Avenida America (vedi post precedenti). Lui per la Fondazione però, era diventato uno di quelli che “sono venuti via dalla strada”, perché aveva smesso di usare droghe da un pezzo e riusciva a mantenersi una stanza lavorando sodo...l’Avenida America la frequentava ormai solo per pulire i vetri delle auto ferme ai semafori. Una sera è successo un fattaccio e la sua reazione ha fatto si che fosse incarcerato, in attesa di un processo. La sua reazione probabilmente verrà fatta passare come legittima difesa, ma il periodo di carcere preventivo, in attesa dell’udienza, può richiedere anche più di sei mesi, in alcuni casi anche un anno o due…questo chiaramente vale per le persone che si trovano nelle sue condizioni sociali ed economiche. Durante la visita altri ragazzi che fino a poco tempo fa si trovavano in strada ci riconoscono e si aggregano. La tavolata diventa qualcosa di paradossale e divertente, molti di loro ci confermano che li dentro stanno meglio…stanno meglio in quel carcere che fuori, sulla strada. Un altro giovane uomo arriva, sul suo volto ci sono ferite semiaperte e fresche, ematomi, tracce di una rissa, di un regolamento di conti ci dice…non sembra sentire dolore, è strafatto, probabilmente di colla…ci chiede informazioni sulla “sua donna”.

-Quando sono entrato qua stavamo in strada, insieme- biascica fra le risa.

La “sua donna” la conosciamo, attualmente è malata terminale, ma questo lo omettiamo.

Gli argomenti pian piano si esauriscono, volendo potremmo restare fino a notte, ma dopo un’ora arriva il momento di andarsene. Uno dei ragazzi ci chiede una visita personale per la settimana prossima, ma non riusciamo a capirne il motivo preciso…farfuglia delle ragioni, la realtà è che ha voglia di ripetere l’esperienza odierna. Torneremo settimana prossima.

Scendiamo le scale tutti insieme, siamo un gruppo numeroso. Raggiungiamo il patio a pianterreno e li ci congediamo, l’affetto è molto. Prima di metterci in fila per l’uscita il mio collega vuole cercare un suo vecchio amico che da qualche annetto vive nel San Sebastian. Chiede informazioni e trova la sua “cella”: una stanza con porta di legno, a pianterreno, a ridosso del bar. L’ingresso è chiuso, il mio collega bussa, dopo circa un minuto il suo amico apre la porta e senza mezzi termini ci dice che ha impiegato un po’ ad accoglierci perché era a letto con una sua amica…la sua amica ci raggiunge sull’uscio ridendo…è imbarazzata ma molto cortese…io mi guardo attorno, si, siamo sempre nel carcere.

Ci congediamo anche dall’amico del mio collega. Dalla conversazione capisco che l’individuo appena incontrato avrebbe il denaro necessario per uscire nell’arco di una settimana, ma attualmente non lo desidera, o non gli conviene, o perlomeno ciò è quanto afferma.

Ci prepariamo per tornare fuori, mi do un’ultima occhiata attorno, per un po’ mi sembra di essere alla Cancha, il mercato principale (vedi post precedenti). Il luogo è oggettivamente pericoloso, una concentrazione di persone emarginate e seriamente problematiche, che convivono in un luogo governativo, caratterizzato da leggi della strada, gestito da secondini corrotti e violenti.

Tutto è così squallido, bagnato, sporco, ma al contempo cosi animato, colorato, contaminato di spirito umano, nel bene e nel male, si capisce.

Usciamo dal carcere e mi fischiano le orecchie, mi gira la testa. Nessuna sala silenziosa e asettica, nessun odore di disinfettante, nessun rumore di manette o di porte ferrose che sbattono, nessuna parete separatoria in plexiglas per le visite, nessuna torretta di controllo, apparentemente nessuna regola interna da seguire per i visitatori, nessuna scorta. Rifletto sulla sensazione che sto provando, penso che in quel luogo darei i primi segni di serio squilibrio dopo una settimana al massimo…a molti dei ragazzi con cui ho parlato oggi invece non dispiace affatto. Rifletto anche sull’effettiva efficacia di un luogo come quello dal quale sono appena uscito…se già il sistema di un carcere ticinese, di per se, non mi convince totalmente, in merito all’istituto visitato oggi, più che sorgermi dubbi, mi sorgono angosce. Di certo non si può dire che non genera lavoro.

Grazie per essere arrivati fino a qui!

Un abbraccio

Matteo

giovedì 14 ottobre 2010

Identità

Ricordo ancora con piacere uno dei primi esercizi importanti che ho dovuto affrontare il primo anno di SUPSI. Il professore voleva farci ragionare sulla percezione che possedevamo della nostra Identità Personale, e così mi sono ritrovata a scrivere della “Nicolità”, ovvero chi è Nicole, che identità si porta addosso, cosa la rappresenta. Con impegno ho redatto un paio di pagine che alla fine risultavano essere il riassunto della mia persona. Ma forse mi sbagliavo…perché cambiando contesto anche un po’ della mia “Nicolità” si va modificando.

In Ticino sono parte di una famiglia di ceto medio (se ancora esiste); i miei tratti somatici ricordano origini del sud, una pelle che con il sole diventa abbastanza scura, capelli e occhi castani e un cognome, Attanasio, che certo non fa pensare ad un’origine svizzera. Così mi riconosco nel mio paese. Così scriverei di me in Svizzera.

Qui le cose un po’ cambiano come già accennato. In soli due mesi più di tre persone si sono avvicinate a me parlandomi in inglese o chiedendomi indicazioni sull’ubicazione del “college americano”. Qui sono la gringuita, come mi chiamano affettuosamente i miei colleghi. Sono “quella del nord”, la persona ricca, la “rubia”, ovvero la bionda. Bionda?!Io?! Veramente ho sempre creduto di essere castana…

Uno degli aspetti centrali di questa esperienza è vivere e confrontarsi con lo schema mentale: boliviano o gringo. Al di là della banale schematizzazione che ci aiuta a situare ogni persona al proprio posto, è interessante notare come in fondo poi queste categorie si infrangono con pochi esempi.

Io sono la gringuita e svizzera-italiana; l’altro giorno ho tenuto in braccio un bambino boliviano, con capelli biondi e gli occhi azzurri, figlio di svizzeri francesi; ho discusso con un padre svizzero pensieroso per il rientro in patria, visto che i suoi figli sono nati e cresciuti in Bolivia; penso ai boliviani emigrati per questioni economiche in Europa in cerca dell’America; penso ad un amico angolano che da ormai cinque anni vive in Ticino e parla dialetto; penso alla sua compagna nicaraguense, con padre svizzero e madre nica; penso alla loro bambina in arrivo che non so esattamente quale nazionalità assumerà; penso a Jennifer Lopez una bambina di sette anni che è arrivata oggi per la prima volta all’attività organizzata da “educar es fiesta”; penso alla volontaria canadese che sta lavorando con noi da qualche giorno e per anni ha vissuto in Costa Rica; penso alla coordinatrice della fondazione di Matteo, assolutamente convinta che lui fosse colombiano; e penso a Kelly, la nipotina di una persona a noi cara qui a Cocha, che ha il privilegio di studiare il tedesco e l’inglese all’età di sei anni.

Solo alcuni esempi per ricordare che le categorie sono necessarie per affrontare la vita con maggior chiarezza e comprensibilità, ma sarebbe davvero un peccato non riuscire a vedere l’esistenza di infinite altre realtà che non si possono schematizzare.

sabato 9 ottobre 2010

Capitani dell'asfalto 2- La banda della Collina San Sebastian

nell'immagine: Vista sulla zona sud di Cochabamba, durante una giornata uggiosa.


Credo che sia arrivato il momento di presentarvi il secondo gruppo di persone, per ordine di importanza in quanto ad ore lavorative della Fondazione, con le quali sono in contatto. Il mese scorso ho scritto dei giovani lavoratori della chilometrica Avenida America (vedi post precedenti); oggi scelgo di scrivere della seconda banda più criminosa fra i Cleferos di Cochabamba, composta dai cosiddetti chicos della Collina San Sebastian.

Tengo a precisare brevemente che, fra il grande giro dei Cleferos, la banda più operosa nell’attività delinquenziale risiede nella zona nord dell’Avenida Antezana, solitamente queste persone alloggiano sugli argini del fiume. Da diverso tempo la Fondazione Estrellas en la calle ha smesso di lavorare con la banda dell’Antezana, in quanto i membri spesso indossavano armi da fuoco e rifiutavano manifestamente il contatto e la presenza degli educatori di strada.

I ragazzi della Collina San Sebastian si contraddistinguono dagli altri gruppi che si trovano in situazione di strada, soprattutto per il consumo di sostanze stupefacenti e di alcool. L’abuso di droghe da inalazione, alcool e altre sostanze infatti, in generale è di gran lunga superiore a quello che si può trovare in altri contesti di strada. Questo fatto genera un maggiore bisogno di soldi, che verranno utilizzati per l’acquisto delle droghe. Il circolo vizioso non si chiude qua, più consumo significa più bisogno, chiaro, però significa anche più degrado comunitario e fisico. Se i giovani dell’Avenida America dedicano molte ore quotidiane alla pulizia dei vetri delle automobili, con lo scopo di guadagnare i soldi per cibo e droga, le persone che vivono sulla San Sebastian non sono in grado, o non sono disposte a lavorare. Generalmente, con l’eccezione di piccoli e brevi impieghi, i membri della banda vivono di furti e rapine. L’età media del gruppo è maggiore rispetto a quella di altre comunità urbane, questo fa si che gli anni di tossicodipendenza sono di più per ogni singolo componente. “Quelli della San Sebastian” sono temuti fra le altre compagnie della città…e loro stessi tengono molto a definirsi “pericolosi”…in effetti, pensandoci bene, la loro nota e presunta pericolosità, è tutto ciò che gli rimane.

Spesso le rapine effettuate da queste persone, avvengono ai danni dei turisti, ma non ci sono regole per loro. I giovani rubano anche a boliviani, come ad esempio a venditori cittadini. Alcuni mercanti della Cancha (vedi post precedenti) e proprietari di banchi di vendita, quando riescono a prendere un reo membro della San Sebastian, con meticolosità lo riempiono di botte fino a ridurlo veramente male; questo non serve molto a convincere il ladro a non ripetere il crimine.

Ogni mercoledì mattina, con l’équipe di educatori, organizziamo un’attività per la banda della San Sebastian; spesso loro vogliono giocare a calcio ed altrettanto spesso l’attività si rivela un caos totale, con persone che si rifiutano di lasciare il “volo” (ormai dovete sapere cos’è! In caso contrario vedi post precedenti), che diventano aggressive, che minacciano gli educatori chiamandoli “baticola” (pettegoli). In questo caos, da diverso tempo ormai, riesco ogni mercoledì mattina a parlare più o meno tranquillamente con alcuni componenti del gruppo. Spesso quando parlo con loro, mi rendo conto che le conversazioni tendono sempre verso tematiche ben precise, come le abitudini criminali, i figli che non si riescono a mantenere, la droga e le armi. Non a caso questo post è iniziato con una sorta di breve classifica…il gruppo della San Sebastian è il secondo gruppo più criminoso fra i Cleferos di Cochabamba…cavoli…il secondo!

La cosa non mi spaventa…perlomeno non tanto quanto il fatto che loro vorrebbero essere il primo. Eppure, pensandoci, nemmeno questo mi spaventa più di tanto…la cosa che forse mi spaventa di più, riguarda lo stigma che aleggia sopra a questi giovani. Socialmente, fanno parte del secondo gruppo più temuto, più odiato della città…socialmente dunque sono qualcosa! Accidenti, ma allora non è vero ciò che i loro genitori gli hanno dimostrato durante tutta l’infanzia…non è vero che non valgono nulla…non è vero che non sono capaci a fare nulla…non è vero che sono solo bambini da prendere a botte; ora sono cresciuti, fanno parte di una banda famosa in città, hanno imparato le leggi della strada, sanno usare i coltelli e sono abilissimi borseggiatori e tutti lo sanno…perfino la polizia. Lo stigma e l’etichetta sono accettati e questa è la cosa più pericolosa secondo me…alle altre bande lo stigma da qualche parte ferisce. A questo si aggiungono l’età e il pesante abuso, la totale dipendenza dalle sostanze più diverse. Il lavoro educativo in questo senso, è una sfida difficile, soprattutto per me che sono un educatore straniero ed appena arrivato in Bolivia. Attualmente comunque, stiamo lavorando con casi di giovani coppie di genitori della San Sebastian, che costantemente collaborano attivamente con la Fondazione, impegnandosi per raggiungere una migliore gestione della loro vita e della vita dei loro neonati; ogni mercoledì mattina all’attività sportiva e di dialogo, nonostante il caos, si presentano come minimo otto o dieci ragazzi, alcuni di loro conducono una vita meno degradata e con loro si riesce a parlare in maniera più costruttiva; alcune giovani coppie sono riuscite a trasferirsi in abitazioni e stanno seguendo un programma educativo di reinserimento sociale proposto dalla Fondazione.

L’aneddoto:

Mercoledì 6 ottobre 2010, alle nove del mattino è iniziata la solita partitella di calcio con i ragazzi della San Sebastian. In campo erano presenti quattordici persone, fra le quali io, altri due educatori e quattro ragazze piuttosto agguerrite e capaci; il resto era costituito da giovani in situazione di strada, tutti fra i 18 e i 28 anni. Sugli spalti del campetto erano presenti altre otto persone, fra le quali due educatrici, un educatore, un neonato e due coppie di genitori in situazione di strada. Dopo circa mezz’ora dall’inizio della sfida calcistica, è arrivato al campetto il Chiquito, un ragazzino di 12 anni, che subito ha voluto giocare, e che subito, ha iniziato a meravigliare tutti noi educatori per l’impegno e l’abilità che stava dimostrando. Aimè…il Ciquito però, quel giorno non desiderava accettare la regola del “vuelo”. Dovete sapere che durante le attività ci sono poche regole ma ben chiare. Rispetto, non violenza e non uso di droga. Per le persone che infrangono palesemente o con atti gravi, queste poche regole, non è previsto il consumo del pasto offerto alla fine dell’attività. Quel giorno, come dicevo, il Ciquito non la voleva piantare di farsi…giocava e tirava la colla…e più giocava e più tirava. La droga solitamente viene consegnata (quasi spontaneamente e a volte dopo estenuanti contrattazioni) dai ragazzi all’inizio dell’attività…gli educatori scrivono il nome della persona sul barattolo di colla e alla fine del programma educativo la sostanza viene riconsegnata al legittimo proprietario…in nessun caso gli educatori si permetterebbero di sottrarre con la forza o con l’inganno la droga alla persona partecipante. I Ciquito se ne infischiava delle richieste degli educatori…e sicuramente influenzato da una componente di orgoglio, dopo un po’ ha iniziato anche a rispondere male ai suoi compagni di banda, che a loro volta insistevano affinché lui consegnasse la colla (quando il gruppo si attiva per far rispettare le regole, per noi educatori è già un bel successo). Più volte la partita è stata sospesa…ma non c’è stato verso…il Ciquito voleva tirare mentre giocava. Alla fine dell’attività un educatore è andato a comprare il pranzo per tutti. Comprando il pasto in sacchetti, ai carrellini con cucinetta ambulanti, si riescono a spendere circa 0.50 Chf per persona. Al ritorno dell’educatore addetto al pasto, il Ciquito si è effettivamente reso conto che per lui di sacchetti non ce n’erano…pertanto…è scoppiato in lacrime.

-Ho fame! E poi mi sono impegnato più di tutti!- si lamentava.

Era vero, aveva fame…e si era impegnato moltissimo…ma la Fondazione non ha come filosofia l’assistenzialismo, non ha scopi caritatevoli, il Ciquito faceva una gran pena a tutti, però quel giorno non avrebbe mangiato il pasto offerto…quel giorno aveva scelto di infrangere una regola molto importante, dalla quale possono partire molte possibilità di cambio, di sviluppo alternativo, un Clefero che rimane per 4 ore senza colla, diventa più aperto e disposto al dialogo.

Dopo un po’ che il Ciquito piangeva, con leggera sorpresa da parte di noi educatori, altri membri del gruppo hanno iniziato a chiedere che il più piccolo componente della banda ricevesse il suo pasto.

-Dategli il suo cibo! Ha giocato bene!-

Un ragazzo più grande si è addirittura commosso (ma in seguito abbiamo scoperto che era ancora ubriaco dalla notte prima).

-Piango perché il Ciquito mi ricorda il mio fratellino!- mi diceva alterato fra i singhiozzi.

È stato difficile gestire la situazione e nessuno si è sentito fiero del fatto che il ragazzino non stesse consumando il suo pranzo. Quello del Ciquito è solo un esempio…quotidianamente un educatore di strada può offrire qualcosa ad un ragazzo di qualche banda, e questo in cambio di nulla…la cosa forse può farlo sentire solidale per un po’, è bello vedere qualcuno che ha fame mangiare no?…ma nuoce alla condizione del giovane, che perde un’altra possibilità per fare i conti con la propria realtà. Nessun desiderio di venire via dalla strada nascerà in lui, se sulla strada troverà chi, a prescindere, gli regalerà ciò di cui vivere.

Un abbraccio

Matteo