lunedì 28 marzo 2011

Il teatro dell'oppresso


La scorsa settimana abbiamo concluso l’interessante corso sul teatro dell’oppresso, finanziato da Inter-agire, e organizzato con l’aiuto della coordinazione dei volontari svizzeri in Bolivia. Hanno partecipato volontari svizzeri presenti sul territorio (Inter-agire e E-changer), alcuni membri delle rispettive istituzioni dove i cooperanti stanno svolgendo il loro lavoro, e alcuni membri della coordinazione. La formazione si è strutturata durante tre sessioni di due giorni l’una, con l’obiettivo di acquisire un nuovo ed interessante metodo per lavorare l’ampio concetto della democrazia con gruppi di riferimento distinti.

Il teatro dell’oppresso (teatro del oprimido) nasce negli anni Sessanta in Brasile, grazie ad Augusto Boal, che ispirato dalle idee del pedagogo e teorico dell’educazione Paulo Freire, costruisce un nuovo modo di lavorare con gruppi specifici la nozione di oppressore e oppresso. Si definisce oppresso un individuo o un gruppo che socialmente, culturalmente, politicamente o per ragioni di razza o sessualità, o per altri motivi, non può esercitare i propri Diritti.
Il teatro dell’oppresso è uno strumento teatrale che parte dalla constatazione che tutte le persone, nel corso della loro vita, assumono entrambi i ruoli; quando però si è in una situazione di oppressione, trovare soluzioni per uscire da questa condizione diventa una questione più complicata. Le tecniche e gli esercizi che sviluppano questo concetto, aiutano il partecipante a vivere sia la condizione di oppressore che quella di oppresso, e di riflettere su quali strumenti si ha a disposizione per modificare questa realtà.

Le tecniche del teatro dell’oppresso sono molte, e visto il poco tempo a disposizione, abbiamo deciso di comune accordo con il facilitatore José Luis Lora, di approfondirne solamente una, nello specifico ci siamo dedicati al teatro forum, il cui obbiettivo è quello di trasformare lo spettatore in protagonista della scena teatrale, e aiutarlo attraverso questa azione a sviluppare azioni di liberazione dalla condizione di oppresso nella propria realtà.

Nel teatro forum, si mette in scena una situazione di vita reale dove sono presenti sia figure di oppressori che di oppressi (es. violenza familiare, discriminazione, abuso di potere, ecc.). L’opera termina con una situazione conflittuale, dove l’oppresso non riesce ad uscire dalla sua condizione (es. una persona o gruppo che continua a subire violenze, una persona o gruppo che non riesce ad integrarsi e viene discriminato, una persona o gruppo che non riesce a far valere i propri diritti, ecc.).

Il teatro forum si costruisce nella messa in scena della rappresentazione. Alla fine dell’opera infatti il pubblico sarà sollecitato ad intervenire e dibattere su quanto appena visto. La situazione di conflittualità con la quale termina l’opera, motiva il pubblico ad esprimere il proprio dissenso; a questo punto si invita lo spettatore ad “entrare” nell’opera e ad attuare nella maniera che lui stesso avrebbe preferito. La persona sale dunque sul palcoscenico, si confronta con gli altri personaggi dell’opera, e cambia la scena, la realtà. Il teatro foro prosegue, sempre sollecitando il pubblico, domandandogli se la nuova situazione è di loro gradimento, oppure avrebbero attuato in maniera differente; se così fosse, il nuovo spettatore verrà invitato a proporre direttamente sul palco la propria idea, e così via.

Il pubblico diventa protagonista, il pubblico attua (ben diverso dal discutere) in maniera differente, propone soluzioni alternative, suggerisce strumenti nuovi ed unici per affrontare una situazione di oppressione direttamente sul palcoscenico. L’idea è infine quella di permettere al pubblico di fare delle connessioni con la propria vita e sviluppare così nuovi metodi per affrontare la propria condizione reale.

Siamo felici di aver avuto l’occasione di partecipare a questo corso, di aver acquisito un nuovo ed interessante strumento di lavoro, e di aver ragionato e discusso con il gruppo differenti situazioni conflittuali, nelle quali spesso non si vede via d’uscita. Grazie a José Luis Lora e a tutti i partecipanti al corso, abbiamo potuto confrontarci e dibattere su questioni importanti utilizzando il teatro, una forma d’arte che ci appartiene da sempre, ed appartiene a tutti gli esseri umani, ma che ci siamo dimenticati di possedere.

Un rinnovato grazie a Inter-agire e a Lucio per la sua disponibilità organizzativa.

domenica 27 marzo 2011

Intervista a Barbara, responsabile area salute

Intervista

Barbara, infermiera volontaria Fondazione “Estrellas en la Calle”

Focus: area salute, intervento specifico

Generalità?

Sono Barbara, ho 33 anni, sono Ticinese, vengo dalle Centovalli e sono infermiera.

Qual è il tuo ruolo all’interno della Fondazione?

Sono responsabile dell’area “salute”.

Da quanto tempo?

Dal giugno del 2008, ho trovato questo posto di volontariato tramite l’Associazione Inter-Agire.

Di cosa si fa carico l’area professionale della quale sei responsabile?

Lavoro nei 3 progetti della Fondazione, con ragazzi “ad alto rischio”, con i ragazzi che vivono in situazione di strada e con i bambini più piccoli, che vivono in strada o nelle famiglie “a rischio”.

Con quali strumenti e metodologie lavori?

Lavoro con lezioni su diversi argomenti, che hanno scopi preventivi. L’idea è sempre quella di partire da ciò che le persone in situazione di strada già sanno, per poi costruire un “sapere” che possa permanere nella loro consapevolezza. Gran parte del lavoro, al di la di queste piccole lezioni, lo svolgo durante colloqui più personalizzati ed individuali con i ragazzi e le ragazze, direttamente in strada.

Quali sono le principali difficoltà nel lavoro che svolgi?

I ragazzi principalmente non si rendono conto, non hanno coscienza dell’importanza della loro salute; sto parlando nello specifico dell’importanza di farsi curare, dei avere un igiene adeguata.

Entrando nello specifico del progetto Coyera; tu lavori con giovani in situazione di strada. A livello fisico e di salute in generale, come vivono questi giovani?

Non vivono molto bene, soprattutto a causa degli effetti che la colla che inalano produce a livello organico. La clefa attacca il sistema polmonare e respiratorio, a livello neurologico attacca il sistema nervoso, a lungo termine perdono la sensibilità nelle gambe e rimangono paralizzati. Per la mancanza di igiene insorgono molte malattie della pelle; fra di loro esistono anche tante malattie a trasmissione sessuale come ad esempio l’HIV. Le gravidanze sono abbastanza fuori controllo.

La clefa rappresenta l’unica sostanza dalla quale sono dipendenti o che consumano?

No, dalla clefa, dall’alcool e da diverse altre droghe (cannabis, pasta base, cocaina…).

Quali sono, nella tua area, le principali necessità d’intervento?

I ragazzi sono abbastanza violenti, pertanto spesso intervengo in casi di ferite. Secondariamente le già citate malattie a trasmissione sessuale sono come detto molto diffuse, infatti molte ragazze si prostituiscono. Un terzo campo è quello delle gravidanze, che vanno seguite e supervisionate.

Tu pensi che ci sia un’età media della morte di queste persone?

Non credo ci sia un’età media, ma so che spesso non arrivano ai 30 anni. Spesso le cause sono i suicidi, le infezioni o gli effetti a lungo termine di clefa e alcool.

Qual è la loro relazione con gli ospedali e i medici?

Hanno sempre abbastanza timore di andare da soli nei centri medici quando ne hanno bisogno, perché hanno paura di essere rifiutati o discriminati. Bisogna sempre o spesso accompagnarli. Spesso i medici li giudicano apertamente e questo a loro non piace.

Io lavoro molto sulla prevenzione, l’aumento della consapevolezza della loro salute e l’accompagnamento.

Ti è mai capitato di dover effettuare interventi di emergenza direttamente in strada?

Direttamente in strada no, anche se spesso ho dovuto curare piccole ferite e una volta mi è capitato di constatare un decesso.

Come pagano le cure?

Normalmente non si responsabilizzano nel pagamento, ci sono centri che danno cure gratis oppure con riduzioni di prezzo. Spesso la Fondazione li appoggia con una parte del saldo.

Il Governo o il Dipartimento si prendono carico di queste spese?

No e spesso e volentieri anche l’ospedale pubblico li rifiuta.

Una volta passati per una malattia, un’infezione, una diagnosi o una ferita grave, tendono a tornare in strada o a far scattare il desiderio di cambio?

La maggior parte tende a tornare in strada, sono pochi quelli che sono spinti a cambiare vita, questo anche se sono affetti da malattie abbastanza gravi. Secondo me sono troppo abituati alla vita di strada e al consumo, questo li limita o li blocca.

Quali sono le sensazioni positive o negative che trai dal tuo lavoro?

A me fa sempre piacere quando queste persone ti riconoscono come un professionista della salute, dunque quando hanno qualcosa ti cercano, vengono da te spontaneamente, ti chiedono, si confidano…questa cosa all’inizio non era facile…ci vuole abbastanza tempo per instaurare una relazione di fiducia.
Le sensazioni negative o frustranti arrivano quando dopo cure, trattamenti, lavori di sensibilizzazione ed educazione relativi alla gravità della loro condizione, comunque non arrivano alla decisione di cambiare vita. A volte non capisco come non possano rendersi conto della gravità della situazione.

lunedì 14 marzo 2011

Capoeira a Cochabamba

Foto: il gruppo Cordão de Ouro Cochabamba, Bolivia

Difficilmente riesco ad affermare che la Capoeira “è il mio sport”, il fatto è che per me rappresenta molto di più. Impossibile immaginare un anno boliviano privo di Capoeira, pertanto già tre mesi prima di venire da questa parte dell’Atlantico, ero in contatto con Jacarè, il graduato del gruppo Cordão de Ouro Cochabamba Bolivia.

Anch’io sono un graduato, per la precisione il mio grado nella Capoeira si chiama “Formado”, questo livello è il primo che permette a un capoerista di insegnare l’arte ad altri atleti. Il gruppo di Cochabamba è piccolo e caratterizzato da una dignitosa umiltà, ma questo non è tutto.

Quando ho messo per la prima volta piede in palestra ero in astinenza da circa 3 mesi. L’officina di Capoeira mi è da subito sembrata piccola, buia, umida…da anni ormai mi alleno presso il Centro Sportivo di Tenero, sono un viziato. Non sapevo ancora che quella stessa stanza, di li a poco tempo, si sarebbe illuminata.

I Capoeristi boliviani mi hanno accolto con strette di mano e sorrisi, ci siamo presentati tutti e Jacarè mi ha introdotto al gruppo definendomi “istruttore svizzero e italiano”…in quel momento ricordo che gli atleti si sono scambiati sguardi di stupore e contentezza…finalmente una nuova fonte di apprendimento! Avranno pensato.

Dopo mezz’ora di allenamento ero rinato…quanto mi mancavano quei movimenti tanto complessi quanto istintivi e ormai automatici, quanto avevo bisogno di vedere quei riflessi bianchi incrociarsi armoniosamente in un intesa di ritmo, lotta e dialogo corporeo, quanto volevo ascoltare ancora il pianto del berimbau, strumento rudimentale e antico, attuale e saggio. Oltre al fatto di sentirmi rinato metaforicamente, sentivo che l’attacco cardiaco era prossimo, un po’ per l’astinenza e un po’ per l’altitudine, ma questo fatto contempla vicende più superficiali, inutile soffermarcisi!

C’erano i capoeristi Jacarè, Perninha, Gigante, Acanhado, Parceiro, Piaca Pau, Cabelo, giovani uomini e ragazzi tutti molto più bassi di me e tutti magrissimi…praticanti capaci di piegarsi e flettersi in maniera eccezionale, anche facilitati dalla loro fisicità. La Capoeira del gruppo Cordão de Ouro, al contrario di quella del gruppo Arte Capoeira Ticino, è più moderna, caratterizzata da movimenti che provengono in gran parte dall’interessante e sempre rispettato universo Hip-Hop. Personalmente sono abituato a muovermi molto di più sulle gambe, per essere più efficace nello scambio di calci, per muovermi di più all’interno della Roda (cerchio di persone all’interno del quale si gioca la capoeira), vengo da una scuola di Capoeira tradizionale…questi folletti boliviani sono abituati a movimenti che per me non risultano così naturali e che ormai con difficoltà (“dall’alto” dei miei quasi 30 anni, 177 centimetri e 72 chili), posso imparare alla perfezione. Morale della favola…in questo tipo di Capoeira, io avevo ben poco da insegnare ai boliviani…direi che piuttosto era il contrario.

Con il trascorrere dei mesi si è manifestato nella sua totalità il potere unificante della magica arte Capoeira, oggi posso dire di avere dei buoni amici a Cochabamba.

Gli allenamenti sono regolari e molto intensi e ogni tanto ci vediamo anche per attività fuori dalla palestra. Non appena finirà la stagione delle piogge inizieremo ad animare le piazze con dimostrazioni e spettacoli, non vedo l’ora.

Oltre che a permettermi di acquisire ulteriore esperienza nella mia arte, il gruppo mi da accesso ad una Cochabamba che non avrei potuto conoscere senza questi nuovi amici.

Un abbraccio, Matteo

mercoledì 2 marzo 2011

Intervista Oscar, responsabile del Progetto Coyera-Wiñana

Oscar-Responsabile progetto Coyera (attenzione e prevenzione in strada)

Focus: Progetto Coyera; Relazione con i giovani; Metodologia di lavoro

1. Generalità?

Mi chiamo Oscar, ho 31 anni, sono coordinatore del progetto Coyera-Wiñana, lavoro per la Fondazione “Estrellas en la Calle”. Ho un’esperienza di parecchi anni in tematiche di tossicodipendenza e educazione con minori.

2. Di cosa ti occupi all’interno della Fondazione?

Sono incaricato di gestire il progetto Coyera, che si occupa di seguire persone che stanno vivendo in strada, nonché del progetto Wiñana, che segue nel reinserimento sociale e famigliare le persone che hanno deciso di lasciare la vita sulla strada riuscendoci.

3. Quali sono le caratteristiche del progetto Coyera?

Coyera innanzitutto significa “amico” nel linguaggio “Coba”, ovvero il linguaggio della strada. Lavoriamo con l’attenzione e la motivazione rivolte ai bambini, agli adolescenti e adulti che vivono in situazione di strada. Siamo i primi contatti che per loro possono rappresentare un cambio di stile di vita, siamo il loro inizio qualora loro volessero intraprendere un cambio. Lavoriamo mediante un accompagnamento e un tipo di intervento interdisciplinare, ovvero nelle aree educativa, amministrativa, psicologica, pedagogica, educativa, spesso anche in quella artistica, ludica e sportiva.

4. Il progetto Coyera risponde a delle necessità?

Chiaramente si. Il progetto nasce originariamente (6 anni fa) in funzione delle necessità espresse dalle persone in situazione di strada. Tutt’oggi ogni obiettivo del progetto è elaborato e discusso con i diretti utenti, in base alle loro necessità. Si lavora sulle necessità che esprimono, tentando di tradurle in concreti progetti di vita personalizzati, indirizzati a un cambiamento, a uno sviluppo.

5. Da quali professionisti è composta l’équipe di lavoro?

L’équipe Coyera è una cosa molto bella per me, è l’unica équipe di strada di Cochabamba che è composta in maniera multidisciplinare: è composta da una psicologa, un assistente sociale, una educatrice, una infermiera, un coordinatore e solitamente uno o due volontari, che sono fondamentali per l’andamento del progetto.

6. I ragazzi in situazione di strada riconoscono il ruolo professionale dell’équipe?

I ragazzi e le ragazze non parlano molto di ruolo professionale, non sanno cosa possa significare nello specifico. Loro sanno che noi siamo educatori e amici, come sai ci chiamano tutti “jovenes” o “señoritas”. Chiaramente riconoscono e rispettano l’équipe Coyera, questo anche grazie ai molti anni di esperienza che ormai abbiamo con loro. Riconoscono soprattutto la reciproca relazione di fiducia, empatia, affetto e rispetto che vige fra l’équipe e tutti loro.

7. Personalmente che relazione hai con i ragazzi in situazione di strada?

Innanzitutto è, e deve essere, una relazione molto oggettiva; ogni volta che sto con loro devo pensare a quali sono gli obiettivi del progetto Coyera e a quali sono gli obiettivi personali di ognuno di loro. La cosa fondamentale comunque è il rispetto reciproco. Molti di loro li conosco da quasi dieci anni e questo mi ha permesso di sviluppare relazioni empatiche in maniera molto equilibrata e umana. Posso dire di essere tranquillo, questo nonostante a volte la condotta di alcuni possa influenzare negativamente i rapporti, ma questo fa parte del processo.

8. Quali sono i loro problemi principali?

Come sai noi lavoriamo principalmente sul senso di depersonalizzazione e destrutturazione che loro provano fortemente. Mancano di identità e rappresentazioni sulla propria persona, mancano di autostima e dignità. Una volta instaurata la vita sulla strada, queste persone sono quotidianamente confrontate con dinamiche di violenza, autodistruzione fisica ed emotiva, droga e tossicodipendenza, ma la vera problematica è la loro storia famigliare, ovvero laddove tutti i problemi sono nati. Credo che in generale si dovrebbe lavorare maggiormente sulla parte preventiva, con le famiglie dei quartieri più poveri, direttamente nelle loro case, con i genitori che patiscono la grande disoccupazione o l’alcolismo, per evitare che i loro figli finiscano sulla strada. Tutti gli adolescenti che stanno vivendo sulla strada hanno una storia famigliare di maltratto, abuso, violenza, consumo di sostanze.

9. Quali aspetti sono necessari per riuscire ad avvicinarli e a raggiungere un reciproco rispetto?

La miglior cosa le prime volte è avvicinarsi con qualcuno che già li conosce. Avvicinarsi in maniera indipendente (come alcuni presunti educatori “free lance” fanno), non è tanto pericoloso quanto rischioso. Al di la di questo, la cosa più importante è vedere queste persone esattamente uguali a noi, sentirli uguali a noi e trasmettere questo sincero sentimento. Sono persone che come tutti amano, si arrabbiano, stanno male e che possono offrire tanto, proprio come possiamo fare tutti. È importante sentire che loro sono così, perché loro lo percepiscono così come lo percepirebbe ognuno di noi. Una buona accettazione arriva poi con il tempo.

10. Quali sono i principali strumenti di avvicinamento, accompagnamento?

Il progetto è ampio, ogni attività strutturata è ben accetta perché rappresenta un ponte relazionale. Ogni area ha le sue attività da offrire alle persone in situazione di strada, che possono spaziare dalla salute allo studio dei diritti civili, dall’apprendimento di materie scolastiche basiche allo studio di malattie diffuse fra di loro. Ogni attività è basata sull’istruzione, sull’offerta di esperienze di vita, tentiamo di trasmettere informazioni e sensibilizzarli su varie tematiche.

11. Qualora un giovane decidesse di lasciare la vita sulla strada?

Hanno varie possibilità di lasciare la strada, a Cochabamba esistono ad esempio diversi centri di recupero. Per gli adulti è un po’ più difficile, ho letto recentemente che il 70% dei centri di recupero in città contemplano l’attenzione a persone sotto i 18 anni. Quando si sviluppa una richiesta di lasciare la strada, la cosa principale da fare è rafforzare, fortificare questa decisione, perché a volte la decisione può rivelarsi poco chiara, poco motivata, a volte può essere solo una bugia, o un desiderio di lasciare la strada e la droga ma solo per un po’, il tempo di riposarsi e rifocillarsi. Noi dobbiamo verificare e consolidare questo tipo di domanda di cambio, qualora fosse il caso.

12. A livello personale cosa trai dal tuo lavoro? Quali emozioni ricevi?

Per me sono emozioni molto positive. Sento di poter offrire tanto, sento di rappresentare una parte piccola ma importante nella loro vita. La cosa che più mi rende attento e impegnato è la consapevolezza di poter essere l’ultima opportunità nella vita di molti di loro. Quanti ragazze e ragazzi non hanno avuto una ultima opportunità o magari l’ hanno sfruttata male o magari ancora l’intervento è stato fatto con malavoglia da parte dei professionisti, chi lo può sapere!

Il fatto di offrire, di comprendere la loro situazione, mi riempie di tranquillità, perché so che ci sto provando con tutte le mie energie. Quando un ragazzo arriva e ti dice: “sto bene, ho una stanza in affitto mia, grazie!”…mah, personalmente credo e sento che nemmeno un milione di soldi possa essere comparato con questa cosa. Esistono anche le frustrazioni…quando lavori e al contempo vivi da vicino le loro ricadute o le loro sconfitte, ti frustri…il lavoro di strada con loro non è facile, devi essere preparato emotivamente, perché loro ti assorbono totalmente nei loro problemi…devi essere capace a “stare su”, perché in strada ci vai per motivarli e non puoi portarti dietro i tuoi malesseri o sentimenti negativi.

A me danno allegria…io confido sempre in loro…tu lo hai visto con i tuoi occhi Matteo…anche i casi più gravi, quelli dei quali si pensa che mai si tireranno fuori, a volte riescono a riprendersi, ad andare avanti o perlomeno a sentire una motivazione.

13. Pensi sia utile (in quale misura) l’invio di personale volontario?

Evidentemente i volontari sono una cosa molto importante, ci aiutano molto nella Fondazione e nei singoli progetti. Il loro appoggio è essenziale, perché ognuno di loro arriva a diventare parte integrante delle varie equipe di lavoro. Dal mio punto di vista comunque il volontario o la volontaria devono avere un profilo personale e professionale serio, devono avere perlomeno delle conoscenze basiche del lavoro in questione, devono sapere perché sono venuti a Cochabamba e soprattutto devono dimostrare impegno e volontà, devono avere voglia di lavorare…i volontari e le volontarie che vengono qua solo per “turismo”, bhè, sarebbe meglio che vadano da qualche altra parte.