giovedì 30 settembre 2010

Critica da un boliviano



Oggi pomeriggio un collega, senza tanti giri di parole, mi ha comunicato il suo disappunto in merito alla precedente fotografia di copertina del nostro blog (vedi sopra). Pur comprendendone il messaggio, temeva che la mia comunità di appartenenza associasse a Cochabamba unicamente un edificio in costruzione ed una gigantesca bottiglia di Coca-cola gonfiabile.
Sono bastate poche parole per trovarci d'accordo: la foto rappresenta una delle tante immagini paradossali presenti a Cochabamba così come in tutto il mondo. Accogliendo la sua osservazione ho poi spiegato il motivo della pubblicazione; l'immagine racchiude alcuni simboli presenti in tutta la città (palazzi in costruzione e pubblicità), però l'interessante sta nel fatto che il tutto è rappresentato al centro della Piazza delle Bandiere, uno dei luoghi più importanti della città.

Con piacere ho accolto la critica di una persona che si è interessata attivamente al nostro blog, e con altrattanto piacere sono qui ora a cambiare l'immagine.

Non avendo ancora a disposizione molte fotografie interessanti della città, ho deciso di mettermi per un po' di tempo in copertina, e stimolare così il mio narcisimo. Ci terrei a sottolineare inoltre che questa foto è stata scattata nella giornata del pedone, il 5 settembre 2010. Ora la temperatura si è decisamente alzata e il cielo è costantemente limpido.

martedì 28 settembre 2010

Bollettino informativo trimestrale

Il Blog è per noi uno strumento utile per raccontare le nostre quotidianità, fra breve però, diciamo fra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, tutti riceverete il Bollettino informativo trimestrale. Il documento in questione ha lo scopo di proporre un punto di vista ed un resoconto un po' più formali, delle nostre esperienze professionali a Cochabamba, speriamo che vi potrà interessare.

Un abbraccio
Matteo e Nicole

Ritirata tattica-testo scritto settimana scorsa


Tempo fa uno ha detto che la vita “o la scrivi o la vivi”. Molti scrittori famosi sono d’accordo. In questo periodo, o perlomeno in questo preciso istante (concedetemelo), mi posso considerare uno scrittore…pertanto desidero, in qualità di “scrittore”, schierarmi contro questa tesi. Quando uno scrive la vita se la vive eccome; certo, fisicamente è assente da dinamiche o processi sociali nelle varie collettività, però con la testa probabilmente ci è dentro in pieno, forse anche più lucidamente degli altri. Scrivere di un mondo (e badate bene al fatto che di mondi ce n’è tanti quanti gli atomi), non implica forzatamente il fatto di estraniarsi, isolarsi da esso. Scrivere di qualcosa secondo me significa partecipare, con il valore aggiunto di lasciare un segno, nero su bianco, per l’interesse di chi a quella cosa ci si sta avvicinando, o ci è già passato, o ha intenzione di passarci, oppure ancora gli interessa un po’.
Questa breve introduzione in realtà sta fungendo da attenuante, il fatto è che mi sento in colpa…già; da qualche ora sono finito nello sconfinato, umido e ombroso baratro dell’influenza intestinale…e mi sono assentato dal lavoro. Eccomi qua, apparentemente ho smesso di vivere nel mondo, ma ne sto scrivendo, sto contribuendo, ci sono, esisto, anche se gli unici esseri che mi stanno vedendo sono la mia amata Nicole ed i bacarozzi che abitano la nostra doccia. Si chiama influenza intestinale non a caso…qualcosa ha influito negativamente sul mio apparato gastrointestinale. Non preoccupatevi, questo non sarà un post sul mio intestino…è solo che in qualche modo sto rendendo conto a me stesso e a voi, che state seguendo fedelmente la nostra presenza qui, del fatto che il mio corpo ha deciso di ritirarsi per un po’, magari per un paio di giorni. Ma perché questa repentina ritirata tattica? Ieri sera stavo tornando a casa a piedi, mi sono fatto una bella e salutare camminata, costeggiando interamente per circa 45 minuti e nell’ordine, le grandi Avenidas San Martin; Ballivian, Libertador Bolivar e America. Ho respirato metalli per tutto il tempo e mentre camminavo mi è venuto in mente l’inceneritore di Giubiasco…quando torno posso andarci a fare le inalazioni nei giorni di raffreddore. L’agitazione e lo stress di quella camminata deve avermi messo fame, così, dopo aver incontrato Nicole vicino a casa, abbiamo deciso di mangiarci una salteña prima di cena (una squisita pasta salata ripiena). In Bolivia le salteñas sono particolarmente indicate per il pasto di metà mattinata, infatti funzionano bene come corroboranti e in più diminuiscono notevolmente la fame; Nicole ed io non siamo molto tradizionalisti e non ci siamo rimasti troppo sopra…ce la siamo pappata verso le 20:00. Oggi, appena arrivato al lavoro, stavo piuttosto male…tutti, a turno, mi hanno chiesto cosa avevo mangiato e dopo l’informazione relativa alla salteña tutti, a turno, ridevano.
Il fatto è che la pasta in questione si mangia al mattino, solo perché solitamente i panettieri le cucinano molto presto…e ora di sera non sono più tanto fresche. La tradizione spesso è influenzata da una logica molto più razionale di quanto si possa pensare.
Chissà (ora parte la grande teoria Freudiana), forse inconsciamente lo sapevo…lo sapevo che quella salteña era avariata, solo che, sempre inconsciamente avevo una gran voglia di isolarmi per un paio di giorni, per ragionare, per guardare Cochabamba da casa mia…e dunque l’ho buttata giù senza indugio…e così ha fatto Nicole, che attualmente ha la peggio e si trova nel suo letto in compagnia dei signori Buscopan e Dafalgan.
Deve essere così, inconsciamente lo sapevo, e il cervello metafisico che ho situato non so dove, ha mandato lo stimolo della fame, mi ha fatto cercare la salteña più guasta dell’Avenida America e me l’ha fatta mangiare, così ora io, il mio inconscio e tutto il resto, possiamo stare qua, con il desiderio esaudibile di parlarvi e ragionare ancora un po’ del luogo in cui stiamo vivendo.
Ogni tanto la voglia di staccarmi da Cochabamba mi prende; quando lavoro sulle colline, con le persone che ci vivono, ad esempio, mi capita di scorgere in lontananza l’aeroporto Wilstermann, sul quale sono atterrato circa due mesi fa. Guardo l’aeroporto e penso di prendere un aereo per La Paz, Santa Cruz, Sucre…poi penso di prenderne un altro per San Paolo e poi un altro per Lisbona, Madrid, Milano…ma poi mi fermo e mi sento bene…capisco che ci cono diverse cose che non mi stanno piacendo di questa città, di questa cultura, di questa società, di questa politica…e capisco che questa reticenza è un bene prezioso, da coltivare in modo costruttivo. Questo aspetto di criticità che sto scoprendo in me stesso, è il segno inequivocabile del fatto che non sto mitizzando, idealizzando, distorcendo la mia permanenza a Cochabamba. Ci sono grandi cose che non funzionano in questa società, così come ci sono nella società dalla quale provengo. Esisteva l’ombra di un’aspettativa in noi, prima di arrivare qua…era relativa al desiderio di incontrare un modello di sviluppo alternativo…l’aspettativa umilmente ha fatto diversi passi indietro…lasciando spazio ad una nuova consapevolezza. I modelli alternativi esistono, così come esistono li da noi…ma nulla più. Non siamo delusi, non siamo mai stati dei grandi idealisti. Ogni tanto, qui a Cochabamba, mi sembra di vivere negli europei anni ottanta, o nella prima metà dei novanta, quando la parola “sensibilizzazione” non aveva preso ancora molto piede, quando, insieme ai ’70, sono stati fatti i danni meno consapevoli a livello ambientale, consumistico, ma anche sociale. Quando penso a queste cose, facilmente rotolo giù nel burrone della commiserazione, del disprezzo, ma immediatamente mi rendo conto di quanto sia inutile farlo. Inoltre noi siamo qua per fare gli educatori, la dimensione che più ci interessa è quella umana; piccola, rispetto alla grande macchina inarrestabile chiamata sistema. La Coca-Cola governa il mercato al punto che le scolaresche di bambini vanno in gita presso le sue fabbriche? L’aria fa schifo tanto quanto certe auto giganti che si vedono in giro? La società da queste parti sta seguendo esattamente il nostro modello, commettendo gli stessi errori? Non è che certe cose mi lasciano indifferente, però credo che ognuno debba cercare di fare bene il suo piccolo.
Facciamo che da oggi, Cochabamba per me, altro non è che un grande e variopinto teatro di strada…a Cochabamba c’è vita…e non mi sto riferendo alla movida, alla fiesta, o alle discoteche. A Cochabamba c’è una vita urbana molto potente, tante cose accadono in strada…per strada la gente ci vive addirittura.
In strada la gente ci mangia, ci lavora, suona, canta, vende, spaccia, rapina, compra, protesta, lotta, nasce, muore, corre, grida, chiede, riceve, offre. Questo mi piace molto di Cochabamba, la dignità, la presenza degli uomini e delle donne, è tangibile, non è silenziosa, la gente si arrabbia pubblicamente e la strada è un luogo libero, non è solo un posto in cui si passa per recarsi da qualche altra parte. Ogni zona urbana di Cocha ha un’identità ben precisa, manifesta, direttamente legata allo stile di vita e alle necessità delle persone che ci abitano. La strada a Cochabamba è contaminata dalla presenza dei suoi abitanti, e mai diviene asettica, silenziosa, neutra. Io in strada ci lavoro ed ogni giorno ricevo, come fossero doni, stimoli che mi permettono di imparare direttamente dalle mie esperienze personali. In questo senso si, Cochabamba si sta rivelando un alternativa, dalla quale stiamo traendo tanto. Esistono resistenze e movimenti di persone che da noi non si trovano, eppure materialmente parlando, mediamente la gente non possiede neppure la metà di tutto ciò che possediamo noi. Quando parlo di resistenze e movimenti, non alludo ad insiemi politici, bensì a sistemi per stare al mondo degnamente, per far sentire la propria voce, per conquistarsi un metro quadrato in una nazione difficile. Sorrido pensando ad una signora che ha affisso un cartello fuori dalla propria abitazione: “affitto le mie posate per compleanni e matrimoni”. Cochabamba è un po’ così: illogica (ma la logica è relativa), sorprendente, ma in ogni caso molto umana, nel bene e nel male.

domenica 26 settembre 2010

Enfermedad

Un breve racconto che descrive un episodio particolare vissuto in prima persona, utile per discutere brevemente dei diversi sistemi sanitari possibili.

E come molti amici e conoscenti avevano già previsto…eccoci qui a raccontarvi della prima “intossicazione alimentare”. Colpa di quella maledetta salteñas (pasta sfoglia ripiena con carne di pollo o maiale, verdura, uovo, e molto altro). In Bolivia le salteñas sono particolarmente indicate per il pasto di metà mattinata e attorno alle 11.00 le piccole economie informali delle cholitas vengono prese d’assalto. Matteo ed io non siamo molto tradizionalisti e l’altra sera ce ne siamo mangiate due verso le 20:00. La tradizione però spesso è influenzata da una logica molto più razionale di quanto si possa pensare… Infatti la sera stessa i primi sintomi: diarrea e forte mal di stomaco. E il giorno dopo si corre in una clinica del centro.
Il primo contatto con un sistema sanitario senza assicurazione obbligatoria.
Arriviamo alla ricezione de Los Olivos, uno dei migliori ospedali della città, consigliato da Barbara, amica infermiera, che gentilmente ci ha fatto anche da guida in quest’avventura. I primi passi alla ricezione sono facili: nome, cognome, cognome della madre da nubile (?), data di nascita, numero di telefono. Ci dicono di entrare nella porta di fronte, dove troviamo alcuni medici e infermiere seduti ad un tavolo. “Sintomi?!”, mi domandano. Cerco di essere il più chiara possibile, anche se a volte mi sento ancora un po’ a disagio a parlare en castellano. Ci rimandano fuori perché è in arrivo un paziente più grave che purtroppo ha preso un infarto. Qualche istante e vediamo il signore in questione passare davanti a noi sulla barella, con famiglia al seguito. Immediatamente capisco che qui le cose funzionano in maniera un poco diversa.
È il nostro turno: un’infermiera ci accompagna alla ricezione del reparto di gastroenterologia. Idem come sopra: nome, cognome, cognome della madre da nubile (?), data di nascita, numero di telefono. E qui ci chiedono se la visita è per tutti e due, “No, solo per me”, “Dunque, da pagare subito, 150 bolivianos”. Pago e con i dolori addominali che non smettono di farmi una spiacevole compagnia, attendo insieme a Matte e Barbara, e penso che dal Dr. Lepori sarei potuta andare tranquillamente da sola.
Una decina di minuti e il medico ci accoglie nel suo studio. Stesse informazioni: nome, cognome, cognome della madre da nubile (?), data di nascita, numero di telefono. Allergie? Assumi medicamenti particolari? Sei incinta? Ciclo mestruale? “No”, “Come no?”, “Non attualmente….”, “Ma solitamente regolare?”, “Si, tutto regolare (a parte l’imbarazzo di non saper parlare al meglio la tua stessa lingua)”. Bene, possiamo spostarci di là per la visita.
Qui tutto mi appare abbastanza chiaro: stetoscopio, controllo degli occhi, delle ghiandole linfatiche e controllo dello stomaco e dell’addome attraverso l’uso delle mani. Mentre misuro la febbre, il medico rientra nel suo studio e Matteo nell’attesa gli domanda: “Dottore, io ho gli stessi sintomi ma più deboli, cosa dovrei fare?”. Risposta del medico: “Non saprei…il consulto pagato non è per lei”.
Rientro anch’io nello studio e il medico comincia a scrivere l’elenco dei medicinali da prendere. Perdo il filo della conversazione dopo il primo punto “antibiotico”. Non sono né medico né infermiera, ma immaginare di prendere un antibiotico dopo un giorno di malattia e senza alcuna analisi non mi fa molto piacere…lo lascio continuare dunque, e alla fine la ricetta arriva a quota quattro medicamenti. Successivamente il medico compila l’elenco delle analisi che dovrò fare domani mattina (mi sembra lunghissima ma Barbara fortunatamente mi rassicura, tutto abbastanza regolare). Aggiunge il suo numero telefonico all’elenco delle analisi e mi avvisa che dovrò chiamarlo appena avrò i risultati, così potrà darci una risposta in merito, ed eventualmente modificare la cura.

Ci dirigiamo alla ricezione delle analisi, dove mi consegnano un vasetto per le feci e uno per l’urina. Mi spiegano che quest’ultima dovrà essere la prima della giornata, mentre per le feci è uguale in quale momento della giornata riempirò il mio vasetto. Domani mattina, quando consegnerò il tutto, mi faranno anche i dovuti prelievi di sangue.

Prima di andarmene decido di passare comunque dalla farmacia interna per prendere uno dei quattro medicamenti consigliati, perché il dolore è ancora abbastanza forte e la febbre non mi abbandona. Qui mi dicono che prima devo passare in cassa a pagare…poi mi daranno le medicine.

Il mattino seguente sono in fila alla ricezione con il mio sacchettino contenente il materiale per le analisi, e così altre numerose persone davanti a me. Arriva il mio turno e mi avvisano che prima è necessario passare in cassa per pagare le relative analisi, e solo successivamente, con la ricevuta, si potrà procedere (avrei dovuto saperlo…). Dunque torno alla cassa, pago il dovuto, e mi rimetto in fila. Di nuovo il mio turno. Consegno il materiale, e mi domandano “L’urina è di questa mattina?” “Si, di stamattina”, “E le feci?”, “Di ieri sera”, “Ah….però non vanno bene…devono essere al massimo di un’ora prima dell’analisi”. Mi consegna dunque un altro vasetto, e tentare di spiegare che ieri mi avevano detto un’altra cosa non serve a gran che. È il momento del prelievo, mi fanno accomodare in una sala, e mentre l’infermiera mi sta togliendo il sangue, entrano nella stanza altre persone che salutano cordialmente, e si siedono di fronte a me a riempire i soliti moduli (nome, cognome, ecc.). L’infermiera del prelievo è gentile, credo abbia intuito la mia paura dell’ago e così iniziamo a parlare un po’. Alla fine mi spiega che già stasera alle 18.30 potrò andare a ritirare i risultati delle analisi del sangue e dell’urina, ma si raccomanda di consegnare anche le feci, con al massimo un’ora di “vita” . (E qui un po’ inizio a iperventilare. Il medico infatti mi ha consigliato caldamente di non mangiare niente di solido per almeno due giorni, ed io invece dovrò defecare fra le 17:30 e le 18:00.)

18.30 ritiro le analisi, e consegno il mio vasetto. L’infermiera lo osserva e in maniera non troppo dispiaciuta mi dice che non ci sono abbastanza feci per il prelievo. (Ma scusa, già è difficile defecare su appuntamento… se oltretutto non puoi mangiare niente di solido!). Mi consegna un altro vasetto: dovrò ritentare. Fortunatamente osservo le analisi del sangue e dell’urina e tutto sembra regolare. Chiamo Barbara che conferma che tutto è normale, e decido che non chiamerò il medico. In fondo sto già meglio. Credo davvero che la mente possa avere un enorme potere sul nostro corpo. Oggi sto meglio, sono guarita. Continuo a mangiare zuppette, onde evitare altri spiacevoli inconvenienti, ma sto bene. Stamattina sono anche andata a suonare i tamburi con la mia equipe.

Prima di venire a Cochabamba ho lavorato per sei mesi a contatto con persone che avevano dei problemi con l’assicurazione malattia obbligatria in Svizzera…ed effettivamente, anche se i nostri servizi sono eccellenti, qualcosa sembra non funzionare se i morosi sono così tanti un po’ in tutto il Cantone. A Cochabamba non esiste un’assicurazione sanitaria obbligatoria, e i servizi sono tutti a pagamento, motivo per cui non tutti possono accedere alle cure di base. Spesso, come già scritto in un post precedente, vanno per la maggiore rimedi naturali, tramandati di generazione in generazione.


P.s La malattia mi ha resa comunque creativa...



domenica 19 settembre 2010

Bicentenario di Cochabamba


Martedì 14 settembre abbiamo festeggiato il bicenenario della liberazione di Cochabamba dal colonialismo spagnolo.
Nell'immagine la bandiera boliviana (rossa-gialla-verde) accanto a quella Wiphala (arcobaleno), riconosciuta come simbolo dello stato boliviano a partire dal 2008, con l'entrata in vigore della nuova costituzione (simbolo appartenente soprattutto ai popoli campesinos).
Non ci riteniamo due grandi intenditori di storia o di politica sud americana. Però ci piacerebbe riportarvi due brevissimi cenni relativi alla data del bicentenario.
Forse non tutti sanno che:
- Cochabamba è stata l'ultima città del Sud America a liberarsi...ma la prima ad essere insorta.
- In centro esiste un Avenida molto importante chiamata Heroinas...inoltre sulla collina San Sebastian c'è un monumento rappresentativo di una anziana signora...una delle Heroinas di Cochabamba. Nel periodo antecedente la liberazione definitiva, a Cochabamba ci sono stati diversi scontri...uno dei quali ha visto scendere sul campo di battaglia, da una parte il rifornitissimo esercito spagnolo e dall'altra moltissime donne, di tutte le età, armate con scope, bastoni, attrezzi da lavoro e giornali arrotolati. Il giorno dell' improvviso attacco spagnolo, tutti gli uomini di Cochabamba erano partiti per combattere un'altra battaglia e le donne sono state sorprese. La battaglia in questione è stata vinta dagli spagnoli, ma dopo un breve periodo Cochabamba si è comunque liberata, e le Heroinas (eroine) di Cochabamba sono passate alla storia per il loro coraggio e il loro onore.
Ciao a tutti!

martedì 14 settembre 2010

Tragicomica Bolivia




Questa ironica storia è praticamente inventata, perché in realtà è una mescolanza di diverse cronache quotidiane. Tutti i riferimenti a personaggi e a fatti realmente accaduti però, non sono affatto casuali! Nell’ironia del seguente racconto non sono racchiuse lamentele o critiche rivolte allo stile di vita sociale boliviano, che tanto stiamo amando, bensì il desiderio di lavorare sul processo che ci porterà ad abituarci completamente alle cose più differenti della vita quotidiana.

Era “l’attesissimo” giorno del trasloco, la sede del progetto Fenix (la casa dei bambini per intenderci) doveva spostarsi; chi del caso aveva deciso di farlo drasticamente…dall’estremo nord della città, all’estremo sud.
Matteo, un nuovo ed intraprendente volontario, che fra le altre cose non andava matto per i traslochi, quel giorno era ingaggiato come “trattieni mobili”. Il luogo lavorativo del trattieni mobili è in prevalenza il rimorchio. Esistono rimorchi enormi a cassone, sicuri e capienti…e rimorchietti da pick-up, questi ultimi a quanto pare necessitano, per i trasporti pericolanti, di un trattieni mobili forte ed incosciente. La Fondazione naturalmente possedeva un pick-up bello vecchio…il compito preciso di Matteo sarebbe stato quello di caricare il rimorchio per poi caricarsi a sua volta sul rimorchio con la merce…e trattenerla durante il movimentato viaggio, per evitare che questa rovini giù dal veicolo, sfracellandosi contro automobili, ciclisti e cani randagi. Matteo, il giorno prima del trasloco, pensò che una robusta corda avrebbe potuto rimpiazzare adeguatamente il suo ruolo sul rimorchio, ma tutto ciò che riuscì a reperire in giro per la Fondazione furono tre metri e mezzo di spago da pacco…il suo ruolo non poteva essere rimpiazzato.
La grande mattina arrivò, con carente vigore Matteo saltò giù dal letto pensando immediatamente e con un sorriso amaro, alla giornata da trattieni mobili che lo aspettava. Entrò in cucina e si rese conto che la scorda di caffè Chicco d’Oro era finita…un mese, due settimane, due giorni…lui e Nicole l’avevano usata con parsimonia…ma tutto finisce prima o poi. Decise di optare per un tè…ma non ci fu verso…troppo lungo, troppo lento, troppo caldo, troppo insipido, troppo inconsistente…troppo.
Durante la notte lo avevano punto, come durante ogni notte da quando era arrivato. Non si era ancora interessato all’animale che veniva a fargli visita, ne ignorava il nome, la forma e il tasso di velenosità…fattostà però che Matteo, la colazione la passava con una mano vagante per il tavolo e l’altra a grattarsi le gambe.
Dopo essersi rifocillato l’assonnato educatore si lavò i denti, stando attento a non ingerire l’acqua, che in Bolivia non è potabilissima. In seguito si spogliò e andò a recuperare i vestiti nel piccolo cortile-lavanderia che si trovava fuori casa. I vestiti lassù in Bolivia, dopo un po’ di tempo erano diventati una roba strana; il fatto è che si sporcavano in fretta, per via dello smog, del caldo e del lavoro…visto che il giovane non era ancora diventato un campione nella lavanderia a mano però…i suoi abiti conservavano sempre una certa patina di sapone in polvere secco in superficie…dando l’impressione a chi gli passava vicino, di trovarsi nella zona di una piccola ma sudicia fabbrica di detergenti.
Dopo essersi vestito con i sudici vestiti insaponati, Matteo sentì un impellente bisogno fisiologico, probabilmente la cena della sera prima non aveva cotto abbastanza. Matteo fece una corsa provando la ridicola paura di fare tardi al lavoro ( in seguito comprenderete il perche dell’aggettivo “ridicola”). Dopo aver espletato, Matteo utilizzò la carta e come spesso capitava ne gettò alcuni pezzi nella tazza…un automatismo che ancora non aveva perso. In Bolivia la carta sporca non può essere gettata nel vaso…ma in un apposito cestino sigillato. Il giovane, quella mattina, dovette per l’ennesima volta dedicarsi alla cosiddetta “pesca”…vi lascerò immaginare cosa può significare…il fatto è che proprio la carta non può finire nelle tubature.

Uscendo di casa, il demotivato volontario decise di soffermarsi un istante a bagnare le piante che con cura aveva trapiantato nel piccolissimo terreno situato al fianco della veranda. I fiori erano demotivati quanto lui…il clima era troppo secco e il sole troppo pungente, inoltre quelli erano giorni ventosi e il terroso “praticello” si era riempito di residui in plastica, polistirolo e carta, arrivati da chissà quale angolo della città. Mentre i suoi occhi scrutavano il suolo, una bottiglietta vuota di Coca Cola, colpì improvvisamente la sua schiena…procurandogli un dolore sorprendente, considerata la leggerezza dell’oggetto. Stupefatto crollò sulle ginocchia e tenendosi la schiena con le mani guardò in alto! Ma certo! Cosa poteva essere altrimenti? Proprio dietro casa sua stava sorgendo un condominio che di giorno in giorno diventava sempre più alto. Dal primo momento che l’aveva notato, Matteo aveva pensato che il condominio era opera di un architetto cieco, oppure di un ingegnere in coma. “Dietro a casa sua”, non significava nella strada dietro a casa sua, significava “appiccicato”, esternamente, al muro della stanza da letto. Matteo e la sua ragazza Nicole vivevano con il timore di veder precipitare nel loro salotto un operaio, visto che questi grandi amanti della Coca Cola girovagavano per i tralicci senza nessuna protezione o imbragatura. Il vento faceva continuamente cadere piccoli sassi, polvere e altro materiale edile sul tetto in lamiera della loro casa; quel mattino, la bottiglia vuota aveva deciso di abbandonare il quarto piano del palazzo in costruzione.
Un po’ sconcertato, ma non più dolorante, Matteo riuscì ad uscire di casa, il trasloco lo aspettava. Mentre aspettava il “trufi” numero 130 (i piccoli furgoncini molto diffusi come mezzi di trasporto), Matteo notò due bambini che sfruttando il vento, giocavano nel parco con due aquiloni. Ridendo facevano a gara a chi arrivava più vicino ai cavi dell’elettricità con il proprio giocattolo. Matteo rabbrividì e sperò che il suo trufi arrivasse prima che uno dei due bambini perdesse fatalmente il gioco.
Il trufi arrivò, ma era completamente pieno, poi ne passò un altro e un altro ancora, sempre completamente pieni di persone…al quinto passaggio Matteo trovò un posto per andare a lavorare…ormai era ufficialmente in ritardo…e una velata ansia di origine centro europea lo avvolse. Durante il tragitto si stupì di quanto potevano diventare “trash” quei piccoli veicoli pubblici chiamati trufi. Ogni conducente era libero di addobbare il proprio trufi come desiderava…il kitch era di gran moda. Sul vasto vetro posteriore del furgoncino asiatico su cui era seduto quel mattino, era rappresentata una voluminosa figura femminile a gambe divaricate, che non lasciava spazio a nessuna immaginazione…una nuvoletta di carattere fumettistico usciva dalla bocca della femmina…e una scritta all’interno della nuvoletta citava: “My Mitsubishi iz te best”. Matteo si limitò a non comprendere e a considerare passivamente gli errori di ortografia in idioma inglese. Un signore affusolato chiese la fermata all’autista, dopo essere sceso, come si usa fare, allungò i soldi al conducente…quest’ultimo però constatò di non avere abbastanza resto da ridare…i secondi scorrevano, e il traffico sopraggiungeva, e i clacson iniziarono a tuonare, e voci a bestemmiare, e l’autista a sudare, e i soldi continuavano a non saltare fuori…e dunque vai di colletta…tutti i passeggeri avrebbero dovuto pagare in anticipo, prima di saltare giù…in questo modo l’autista poté ridare i soldi all’affusolato…e il traffico di Cochabamba poté riprendere il suo flusso tossico.
Matteo arrivò sul luogo dell’incontro con circa mezz’ora di ritardo…e scoprì di essere stato il primo a sopraggiungere. “Bene” pensò. Dopo 15 minuti comunque si trovava sul rimorchio vuoto del pick-up, viaggiando in direzione della casa del progetto Fenix. Con lui sul rimorchio c’era Henry, un educatore tedesco di 21 anni che stava ancora imparando la lingua, ma che gli stava molto simpatico. Il conducente ed il suo copilota invece erano due psicologi della Fondazione. Arrivarono alla casa e dal dialogo dei due psicologi, il ticinese e il tedesco dedussero che mancava la chiave per entrare! I due psi contemplarono per un po’ l’idea di posticipare il trasloco, senza però stupirsi, nemmeno per un attimo, del fatto che MANCAVA LA CHIAVE DEL LUOGO IN CUI SAPEVANO DI DOVER ANDARE!!!!!!!!!!!!! Telefonarono a una collega che si trovava nel suo letto a dormire…a quanto pare l’unica che aveva la chiave…questa arrivò un’ora dopo alla casa, frustrata, ma con la chiave. “Bene”, pensò Matteo.
Caricarono e scaricarono mobili per molte ore, facendo su e giù per tutta la città diverse volte…a Matteo tutto sommato piacque l’esperienza…non rischiò realmente la vita…ma ci andò vicino. Lo stupì il senso di libertà che riusciva a conferirgli il fatto di abitare quel rimorchio durante i viaggi all’aria aperta. Passando davanti ad un cantiere i muratori gli gridarono “Gringooooooo”(riferimento spregiativo alle origini nord americane di alcune persone) e Matteo prontamente rispose a squarcia gola “Boliviaaaanooooos”, facendo ridere i muratori e restando soddisfatto della sua reazione. Ad un certo punto il suo collega tedesco e nuovo amico Henry, iniziò a vomitare sangue coagulato! Tutti si spaventarono molto! Henry però confessò di avere ingerito per circa mezzora il sangue che gli usciva dal naso, PERCHE SI VERGOGNAVA. Il sangue vomitato dunque non sgorgava da un qualche suo organo interno…e il sangue che gli era uscito dal naso era la causa diretta di un potente colpo di sole e della disidratazione…capita se non si prendono le dovute precauzioni. “Bene”, pensò Matteo, apprezzando il suo cappellino, la bottiglietta di acqua che teneva sempre nella sacca e il fatto di non aver mai provato vergogna per un po’ di sangue da naso.
La giornata di alternativo lavoro stava per finire, i due educatori e i due psicologi decisero di fermarsi per uno spuntino…Matteo aveva davvero voglia di una zuppa di carne…nutriente, leggera, economica e liquida (aveva sudato molto). Ne ordinò una in una bancarella di strada…arrivò che era ancora fumante…ci soffiò un po’ sopra e poi iniziò a lavorare di cucchiaio. Mentre pensava al fatto che quasi un litro di zuppa costava circa 50 centesimi di franco svizzero, il suo cucchiaio urtò qualcosa che si trovava ancora sommerso, sul fondo della scodella semi piena. Matteo approfondì l’incontro che aveva appena fatto, scoprendo il motivo per cui la zuppa era tanto saporita…sul fondo c’erano due zampe di gallina stracotte, che tetramente sembravano stringersi a vicenda in una defunta e gastronomica morsa di amicizia. “Bene” pensò Matteo, e se le mangiò rosicchiandole.
Il lavoro era giunto al termine, tutti i mobili erano stati trasportati e durante l’ultimo viaggio il pick-up si era dovuto fermare 4 volte, perché Henry era tornato a casa dopo il collasso e Matteo doveva riposarsi ogni tot di tempo, oppure non ce l’avrebbe più fatta a reggere gli oggetti più pesanti.
Quando giunse il momento dei saluti era già buio e tutti erano sbattutissimi…il quartetto era tornato al punto del ritrovo, dove due segretarie della fondazione li aspettavano per un resoconto della giornata. Matteo era pronto a squagliarsela…e in più godeva per il fatto che era venerdì e un week end di riposo lo stava aspettando. Proprio mentre tendeva la mano per salutare la prima persona, una delle due segretarie, dopo un camuffato consulto con sua collega, pronunciò le fatidiche parole:
“Matteo, eccezionalmente potresti darci una mano anche domani? Ci sarebbero altre cose da trasportare!”
“Uuuuuuu…mmmmmm…domaaaaniii….domani è difficile” reagì Matteo assumendo un’espressione ferocemente dispiaciuta.
Le due segretarie iniziarono a fissarlo e tutto il resto del mondo sembrò scomparire per il giovane. Loro lo fissavano, perché lui non aveva ancora dato una risposta convinta e definitiva.
“EEEEEEEE…mmmaaaaaa…domani…davvero, difficile, difficile domani…ho un impegno al mattino prestoooo” proseguì pateticamente Matteo.
Le due seguitarono a fissarlo in silenzio…ammiccando e annuendo impercettibilmente.
“No, davvero ragazzeeeeee….domani…..mah…domani….”
Le due rimanevano mute…Matteo comprese che doveva dare una risposta più convinta, più secca, più brutale, determinata, inequivocabile, severa, negativa.
“A che ora?” Chiese.
“Ok! Grazie Matteo! Alle otto del mattino andrà bene! Facciamo sull’incrocio fra la Santa Cruz e l’America?”
“Si! Perfetto!” rispose servizievole Matteo...in fondo la cosa l’aveva già digerita…i traslochi non si fanno tutti i giorni.
Matteo si diresse verso casa, pensando che quella sera avrebbe potuto andare con Nicole fuori a bere.
“Joven!!!” si sentì chiamare.
“Joven” era il modo in cui i cleferos chiamavano gli educatori. Matteo si voltò e vide una giovanissima ragazza con la quale andava piuttosto d’accordo. “Joven come stai? Quando facciamo capoeira? Mi dai una moneta?” Matteo preferì pagare una michetta alla ragazza, mentre scambiavano quattro chiacchiere.
Erano le dieci di sera, il giovane volontario era ormai rientrato a casa da un’oretta…si stava apprestando a cenare da solo…(quel venerdì sera infatti Nicole stava lavorando fino a tardi)…quando il telefono squillò. Era proprio Nicole, che con tono agitato informava il fidanzato di essersi persa a Cochabamba.
“Ma come persa!!!” rispose il ragazzo.
“Stavo lavorando in periferia e ho preso un trufi che non conoscevo! Non so dove sono scesa!”
“E perché sei scesa in un posto che non conoscevi?”
“Perché non sapevo dove stavo andando!!”
“Ma non potevi parlare con il conducente?”
“Mi sembrava ubriaco, puzzava di alcool! Amore non so dove sono ed è buio!”
“Prendi il primo taxi che passa!”
“Ma non mi fido!”
Una palpebra del giovane volontario iniziò a tremare.
“Prendi un fottuto taxi!!”
Nicole arrivò a casa dieci minuti dopo…parecchio stanca ma molto più tranquilla rispetto alla telefonata.
Verso mezzanotte Matteo e Nicole stavano parlando della loro giornata in un locale, con davanti una birra e un cocktail…erano molto rilassati e gli venne fame! Chiesero la carta degli stuzzichini e ordinarono una pizza piccola da dividere in due. Sulla carta la pizza portava il nome di “diavola” e i suoi ingredienti lasciavano ad intendere che i padroni del ristorante avevano passato qualche vacanza in Italia…buon segno!
La diavola sarebbe stata farcita con pomodori, mozzarella, RUCOLA E SCAGLIE DI PARMIGIANO REGGIANO! Poco dopo che Matteo e Nicole avevano ordinato, una cortese cameriera li raggiunse al tavolo per aggiornarli rispetto all’andamento della loro comanda.
“Volevo solo dirvi che per la Diavola sono finiti la rucola e il Parmigiano…ma se vi va bene possiamo farcirla con sottilette e lattuga…la lattuga ovviamente ve la cuociamo con la pizza!”
I due ordinarono una margherita e ripresero ad ironizzare sopra alle loro rispettive giornate.

La Bolivia non è chiaramente solo ironia o paradosso, ma forse per uno straniero, perlomeno inizialmente, è meglio affrontarla con questi sentimenti.

giovedì 9 settembre 2010

Prime sensazioni


Educar es Fiesta


Lunedì 6 settembre 2010

Prima mattinata a casa da sola e ne approfitto per scrivere. Ho una mezza giornata di vacanza in quanto ho dovuto lavorare sabato sera perché al Tapeque (il circo sociale che fa parte dell’organizzazione per cui lavoro) erano in scena i ragazzi di Taquinia (quartiere poco distante dal centro della città, dove Educar es Fiesta è presente giornalmente con differenti attività artistiche ed educative e dove concentrerò maggiormente il mio lavoro per questo anno).

Il 1° festival di teatro con i ragazzi di Taquinia ha avuto grande successo ed il circo era carico di energie positive e creative. Il tema proposto per il concorso riguardava il consumo di alcool e i comportamenti che da esso derivano. Nell’ideazione e nell’attuazione dell’opera i partecipati hanno potuto approfittare del sostegno di Danilo, giovanissimo artista parte integrante di Educar es Fiesta, e dell’appoggio dei loro professori e di giovani animatori culturali (ragazzi/e che vivono nel barrio Taquinia e partecipano attivamente alle attività di Educar es Fiesta. Sono inoltre facilitatori della comunicazione fra l’associazione e la popolazione di questo quartiere).

L’atmosfera generale che si respira ad Educar es Fiesta è chiaramente condizionata dall’arte. Giornalmente partecipo a tallers (corsi) di teatro, di musica, burattini, e molto altro, e quotidianamente mi stupisco di quanto semplici o complesse attività artistiche influiscano sul comportamento di bambini, giovani, adolescenti e adulti. Essere protagonisti di questi momenti significa mettere in scena le proprie paure, i propri timori, le capacità e i punti di forza della propria personalità. Mi accorgo che questi spazi sono molto utili anche per me, giovane cooperante, che sta iniziando gradualmente ad inserirsi in quest’equipe. Esternare le mie emozioni attraverso l’arte significa espormi attraverso un mezzo diverso da quello più conosciuto del linguaggio; è una comunicazione filtrata che necessita di maggior attenzione per essere capita.
Educar es Fiesta mi ha accolto e in questa settimana mi ha anche sostenuta nell’affrontare il cambiamento di vivere in un’altra città, di iniziare un nuovo lavoro, di riequilibrare le mie abitudini di vita, di parlare una nuova lingua. L’equipe è eterogenea nelle professionalità, negli anni, nelle esperienze e nelle conoscenze dei vari membri, e questo permette di avere sempre una risposta complementare alla medesima domanda o preoccupazione. L’equipe però è anche un vero e proprio sistema artistico che non permette di funzionare se non attraverso il lavoro e la partecipazione di tutti i suoi membri.

P.S.

Mercoledì 8 settembre 2010

Questo pomeriggio sono andata a Taquinia con Griseldo, membro dell’equipe, per la quotidiana attività con i ragazzi del barrio. Camminando per la via del ritorno, Griseldo, senza particolare attenzione, mi domanda: “Qual es la cosa que mas te gustò asta ahora de Bolivia?”. Una domanda tanto semplice quanto complessa e articolata nella sua risposta. Dovendo scegliere fra tante immagini, e non sapendo districarmi fra i mille pensieri che correvano nella mia testa, ho scelto quello che avevo davanti agli occhi. Cosa mi è piaciuto di più fino ad ora della Bolivia? “I bambini che giocano sulla strada di terra battuta, senza timore di sporcarsi, farsi male o perdersi” . L’immagine è poetica e forse tutti una volta nella vita, in un documentario o in una fotografia, hanno avuto l’occasione di osservare bambini scalzi giocare sporchi per la strada. Però osservarli nella loro quotidianità è davvero un’altra cosa: i bambini non sono personaggi romantici o poetici di un triste documentario, strumenti per far leva sui nostri buoni sentimenti. I bambini sono semplicemente bambini che giocano per la strada.

domenica 5 settembre 2010

Capitani dell'asfalto - I Cleferos dell'Avenida America


“Credo nelle rovesciate di Bonimba, e nei riff di Keith Richards. Credo al doppio suono di campanello del padrone di casa, che viene a prendere l'affitto ogni primo del mese. Credo che ognuno di noi si meriterebbe di avere una madre e un padre che siano decenti con lui almeno finché non si sta in piedi. Credo che un'Inter come quella di Corso, Mazzola e Suarez non ci sarà mai più, ma non è detto che non ce ne saranno altre belle in maniera diversa. Credo che non sia tutto qua, però prima di credere in qualcos'altro bisogna fare i conti con quello che c'è qua, e allora mi sa che crederò prima o poi in qualche Dio. Credo che se mai avrò una famiglia sarà dura tirare avanti con trecento mila al mese, però credo anche che se non leccherò culi come fa il mio caporeparto difficilmente cambieranno le cose. Credo che c'ho un buco grosso dentro, ma anche che, il rock n'roll, qualche amichetta, il calcio, qualche soddisfazione sul lavoro, le stronzate con gli amici ogni tanto questo buco me lo riempiono. Credo che la voglia di scappare da un paese con ventimila abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso, e credo che da te non ci scappi neanche se sei Eddie Merckx. Credo che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio un cazzo della vita degli altri.”


Non so precisamente il perché…ma questo indimenticabile, tragico, breve, efficace monologo (recitato dall’indimenticabile Stefano “Ivan Benassi” Accorsi, durante l’indimenticabile 1998, nell’indimenticabile film “Radiofreccia”, di Luciano Ligabue) è in grado di mantenermi lucido e reattivo in ogni giorno di lavoro.
Mi capita di vedere qualcosa, o di sentirlo, o anche solo di annusarlo…e mentalmente il monologo parte, in automatico. Non è tanto che questo monologo lo rivolgo a me stesso…piuttosto, secondo i miei attuali sistemi mentali, il monologo rappresenta bene la condizione di vita delle persone con cui lavoro…cioè le persone che stanno vivendo in strada nella città di Cochabamba, qui in Bolivia, qui nel mondo.
Secondo me il monologo dice, spremendo il tutto, che non fa stato quanta voglia hai di credere in cose ultratterrene, di sperare, di avere opinioni argomentate e raffinate, di far valere i tuoi diritti di cittadino degno e benestante; non fa stato il tuo pensiero astratto, il tuo intelletto, la tua anima, se prima non hai saputo fare i conti con le piccole cose dell’esistenza, se prima non hai saputo accettare e giocare con le cose della vita di tutti i giorni, se prima non sei diventato un maestro, un professionista informale della quotidianità. Sono confortato dal fatto che un pezzettino della cultura che maggiormente mi appartiene, per intenderci nulla di esotico secondo i nostri canoni, abbia la facoltà di starmi vicino qui, dall’altra parte del mondo, ricordandomi che io non sono di qua, che gli strumenti che possiedo per analizzare questa realtà, in questo caso la cinematografia d’autore italiana, vengono da una regione geografica e da una cultura ben definite, a me molto vicine, in tutto e per tutto.
Tornando al monologo: forse la penso così perché in questo periodo associo le parole scritte all’inizio di questo post, alla vita di persone che ogni giorno si dimostrano maestre della sopravvivenza sulla strada…persone che con dedizione forse inconsapevole, ogni giorno sanno inventarsi il cibo, il lavoro, le relazioni, gli affetti....ma facciamo un passo indietro.
Circa una settimana fa ho conosciuto il Panchita, dinamico, sempre al lavoro con la sua maglietta dell’Argentina; il Palito, introverso e serio come pochi; il Botas, il capitano della banda, gran oratore; il Gato, che si stupisce di tutto; il Negro, che non la smette più di farmi domande sull’Italia, perché non si capacita del fatto che sono svizzero ma non parlo tedesco. Sono solo alcuni dei ragazzini che vivono sulla drittissima Avenida America, una delle arterie stradali principali della città. E così sono loro i Cleferos…i temuti capitani dell’asfalto di cui tanti parlano…i respiratori di clefa (colla da scarpe)…che quando si fanno dicono di “volare”, e che il preziosissimo flaconcino in pvc contenente la clefa lo chimano “el vuelo”, cioè “il volo”. Non è mia intenzione fare del “voyeurismo” o di farvi commuovere, non pubblicherò foto di volti con occhi taglienti…qui stiamo parlando di persone con una dignità ben maturata, che non accettano la carità, che non sono i pazienti di nessuno, che attualmente si trovano in strada per una convergenza di fattori. La droga li aiuta a “non sentire” nel senso lato del temine…e probabilmente anch’io sarei andato a comprarla da qualche calzolaio spacciatore, se mi fosse capitato di dover lasciare o perdere tutto da bambino, in una città come questa.
Quello che vorrei, invece, è farvi conoscere maggiormente questa realtà che solitamente vediamo nei documentari o nei film. Vorrei proporvi alcuni aspetti critici di queste comunità, soffermandomi un po’ sul funzionamento sociale dei Cleferos…che, da qui la scelta del titolo, mi ricordano molto una banda che ho conosciuto in un libro molto bello: “Capitani della spiaggia” di George Amado…se non l’avete già fatto leggetelo prossimamente. Non vorrei essere frainteso, nella vita delle persone che ho conosciuto in questa settimana non c’è nulla di romanzato o romantico, però il libro in questione parla con un realismo molto rispettoso, sottile ed oggettivo, della vita sulla strada di bambini e adolescenti.
A Cochabamba ci sono diverse bande di Cleferos, alcune sono più pericolose ed aggressive, altre più laboriose e vivaci, altre ancora composte da persone più adulte con i loro neonati; le ho conosciute quasi tutte, ma quella che ho frequentato maggiormente in questa prima settimana di lavoro è la citata compagnia dell’Avenida America.
Vivono in un tunnel che fa parte di un torrente artificiale in secca, il condotto è fatto di cemento armato e il tunnel passa sotto ad un’altra Avenida imporante molto vicina e parallela alla citata America. Il tunnel li protegge dalla pioggia, dal freddo e dal sole cocente, inoltre è prossimo al loro posto di lavoro.
Ogni mattina il gruppo si sveglia e va a lavorare nei pressi dei semafori e delle rotonde più trafficate dell’Avenida America. Ogni membro possiede e mantiene gomma e spugna, fondamentali per la pulizia dei vetri delle auto che si fermano per brevi momenti alle intersezioni. Ho sentito dire che Cochabamba è la quarta città più inquinata del Sud America, non so se è vero, ma sta di fatto che di auto ce ne sono davvero a migliaia…i cosiddetti Cleferos hanno saputo il fatto loro…di lavoro ce n’è in abbondanza e ogni conducente che accetta di farsi pulire il vetro sgancia una monetina, solitamente da un boliviano. Il ricavato è molto utile al gruppo, o ai singoli membri, servirà infatti per l’acquisto di cibo e clefa, i carburanti basilari. Un pane dolce poco elaborato può costare 0.50 centesimi di bolivanos, mentre la clefa, che è considerata la droga “mas barata” (più a buon mercato), costa 10 bolivianos al flacone. Ogni flacone contiene indicativamente 1dl di materia e le sue esalazioni possono durare per ore. La clefa, come accennato, si può reperire da veri e propri calzolai che vogliono arrotondare, oppure da spacciatori professionisti.
I ragazzi che ho conosciuto si separano dal loro “vuelo”, solo durante le attività che svolgono con la fondazione per la quale sto lavorando. Solitamente il flaconcino, è tenuto nascosto nella manica di una felpa, in questo modo i bambini e i giovani del gruppo possono volare senza mostrare la droga. L’effetto delle esalazioni prolungate della colla, produce una sensazione di extracorporeità e di estrema leggerezza. Guardare questi giovani volare non è bello, nei momenti di maggiore intensità dell’effetto, il loro sguardo se ne va e lascia spazio ad un’espressione inebetita che dura al massimo per un paio di minuti…la particolarità della clefa infatti è che finché la respiri puoi volare, ma appena smetti l’effetto si rivela effimero...quasi tutti i ragazzi che ho conosciuto fino ad ora comunque, sono in grado di comunicare e reagire più o meno normalmente anche mentre stanno volando.
Nel gruppo dell’Avenida America ci sono alcune coppie e alcuni ragazzi sono già genitori, i loro figli durante il giorno vengono regolarmente curati da professionisti della fondazione, che ricevono i neonati in una casa appositamente preparata per poterli lavare, far giocare, nutrire ed istruire. I genitori accettano di buona lena questo tipo di collaborazione, rimangono comunque molto gelosi ed orgogliosi dei loro figli e della loro genitorialità, questo nonostante gli episodi di negligenza siano frequenti.
Ai Cleferos dell’America piacciono da morire il calcio e lo sport in generale. Sono degli ottimi calciatori e hanno una resistenza fisica fuori dal comune; alcuni potrebbero alludere al fatto che la clefa funge da stimolante, ma invece è un po’ il contrario, visto che questa danneggia, oltre al sistema nervoso e le trasmissioni neuronali, i polmoni e dunque la distribuzione d’ossigeno ai muscoli. Il fatto è che questi giovani sono nel fiore dei loro anni…la vita di strada associata al consumo quotidiano di clefa ed alcool comunque, come possiamo immaginare, porta la persona ad un deperimento molto rapido e prematuro sull’arco degli anni. Spesso una persona che consuma clefa per anni, finisce per restare paralizzata, a causa dei danni arrecati al sistema nervoso centrale e periferico.
Da una settimana i ragazzi hanno iniziato un corso di capoeira con il sottoscritto…la cosa è molto informale e piuttosto comica…nessuna delle due parti si sta facendo delle aspettative, però ci si diverte senza farsi troppi problemi, il che non guasta. I Cleferos sono amanti della musica, dei film, delle leggende metropolitante...sono sempre piendi di domande...amano la conoscenza...sono tutt’altro che intellettuali...direi piuttosto che sono una ramificazione del mondo criminale...ma conoscono...e ricordano...possono essere, ad esempio, le migliori guide qui a Cochabamba.
Durante alcune mattine della settimana, i Cleferos vengono invitati da noi educatori a partecipare ad attività pedagogiche o aggregative in luoghi alternativi. L’équipe si impegna a preparare, ad esempio, giochi, stand, sostegno psicologico ed educativo, messe in scena, momenti di dialogo, quiz a premi e ovviamente, in contropartita alla partecipazione dei ragazzi, colazione e pranzo. La maggior parte dei Cleferos fa parecchia fatica a restare concentrata a lungo, però tutti hanno quasi sempre qualcosa da dire in risposta agli stimoli che ricevono. Sono certo del fatto che, al di la dell’interesse che possono manifestare e verbalizzare per le attività pedagogiche e di dialogo, molti di loro non ci seguirebbero se alla fine della mattinata non arrivasse un pasto…il fatto è che in ogni caso ci seguono e partecipano…i compromessi sono importantissimi.
I Cleferos dell’America sono molto religiosi, credono in Dio, in Gesù e nella Madonna, ogni volta che mangiano con l’équipe di educatori di cui faccio parte, pregano prima di toccare il cibo, tengono gli occhi chiusi e aggrottano la fronte, quanto parlano con un Dio lo fanno per davvero. Molti di loro conoscono abbastanza bene la bibbia…altri ne hanno solo sentito parlare…ma tutti ci credono.
A proposito di credere…per concludere torniamo all’inizio? Chissà in cosa possono credere ancora questi giovani? Forse hanno anche loro i loro dei miti locali…calciatori, ciclisti, musicisti…forse credono solo in cose concrete, cose alle quali bisogna adempire per campare, come se anche loro avessero un padrone di casa che suona due volte il campanello ogni primo del mese…forse sognano, come tutti.
Non vorrei darvi l’idea di voler far passare migliori di quello che sono questi ragazzi, parlando tendenzialmente dei loro aspetti positivi…il fatto è che attualmente credo che il vero processo di stigmatizzazione avvenga in maniera contraria…ovvero mettendo in rilievo gli aspetti più drastici, negativi, squallidi, criminali, sporchi, tristi, tossici, travagliati delle loro vite e dei loro comportamenti sociali. Qui a Cochabamba i Cleferos sono odiati e discriminati da moltissime persone ed anche questa cosa può avere la mia comprensione. Non parlo dei Cleferos dell’America, però rapine e furti per mano di bande di ragazzi di strada, sono all’ordine del giorno. È pur vero che l’odio e il ribrezzo da parte della popolazione non aiuteranno un Clefero a venir via dalla strada. Martedì la polizia, ad esempio, ha bruciato con la benzina le stanze di assi, plastica e lamiera e i materassi di una banda che vive su una collina del centro. Sapete, su quella collina prossimamente costruiranno un conservatorio e dunque bhè…le erbacce e la spazzatura vanno bruciate.
Mi vien da pensare che i Cleferos rappresentino un po’ la miseria sociale e materiale che tutti vorremmo fuggire, ma con la quale tutti abbiamo a che fare. Vorremmo farla sparire…forse vorremmo bruciarla, come ha fatto la polizia con le motivazioni del caso che profondamente ignoro. Penso che in realtà i componenti delle varie bande, siano persone che vivono con ciò che hanno ricevuto, sia fisicamente che psicologicamente. Persone che vivono al limite di tutto, che a volte non hanno limiti, persone che soffrono o che fanno soffrire, in un contesto degenerante per la persona. Un mio collega di nome Niko, che ha concluso il suo lavoro questo venerdì, in un discorso finale ai ragazzi dell’Avenida America, ha affermato di non aver mai potuto capire come si possa restare vivi per strada usando clefa, ma di credere fermamente che chiunque ci riesca abbia anche la forza di venirne fuori.
Vi parlerò ancora di come vanno le cose…e credo che molti miei pensieri evolveranno, cambieranno, o si contraddiranno
Ciao Matteo