Alcuni
giorni fa, invitato ad una lezione per il modulo “stage all’estero” della
SUPSI, parlavo nuovamente della Bolivia e del mio lavoro da educatore di strada
nell’alchemica città di Cochabamba.
Uno
dei concetti emersi durante la discussione, dopo la presentazione alla classe
di studentesse in partenza, ha toccato dei punti che sono stati in grado di
farmi tornare indietro nel tempo.
La
professionalità di un volontario esige una scissione fra ciò che è
“l’appassionamento” per il paese che lo ospita e ciò che invece gli fa amare la
cosiddetta “cooperazione internazionale”?
Innamorarsi
della nazione straniera o innamorarsi del proprio ruolo composto da ambivalenza
in formato aeroporto e regolari lacrime d’addio? Innamorarsi di entrambe le
cose forse…non lo so.
Sono
ormai consapevole del fatto che fare il cooperante non significa solo spostarsi
per il mondo, affrontando terreni impervi o dinamiche relazionali curiose.
Sono
tornato in Ticino da sei lunghi mesi; da novembre ad aprile ho fatto il
barista, pur praticando l’antica arte della cooperazione quotidianamente;
raccontando delle mie esperienze boliviane ad ogni disoccupato bighellonante e
ad ogni amante di Fendant mattutino. Solo da un mese ho ripreso a lavorare come
educatore di strada, eppure non mi sono mai sentito lontano dalla strada, mio
contesto lavorativo per eccellenza. Solo ora scorgo e sperimento la potente
ripercussione positiva di ciò che ho fatto, vivendola quotidianamente
nell’informalità della mia routine ticinese. Penso ai ragazzi che seguivo,
penso a tutti i loro nomi e ai racconti che ho scritto per loro e per voi e
soprattutto per me. In ogni ora del giorno penso a quello che ho vissuto ed è
come un terreno intoccabile e intangibile che mi concede spazi meditativi
puliti e riservati. È bello nella sua intensità paradossalmente dura.
Francamente
solo ora inizio a valutare gli effetti benefici di un’esperienza durata un
anno.
I
racconti sui ragazzi di strada “cochabambini” proseguono settimanalmente, la
cooperazione assume ora una forma di scambio più leggera, sgravata dalla
responsabilità della presenza, dalla pesantezza di talune immagini. Leggera nel
fisico, s’intende, semplicemente perché io non sono più in Bolivia, ma
costantemente impegnativa sul piano mentale e ogni tanto del coinvolgimento
emotivo.
Ieri
ad esempio, ho parlato con il mio ex collega e volontario tedesco Johannes.
Attualmente il ragazzo di vent’anni si trova in Bolivia, ci è tornato a
distanza di alcuni mesi dalla sua partenza.
Johannes
mi ha aggiornato, con quel suo modo un po’ tagliente e apparentemente cinico, su
tre situazioni specifiche delle quali è venuto al corrente.
Il
Gatto si è suicidato; Karen è incinta del Gatto; il Soldato è in un centro di
recupero da molti mesi e due settimane fa finalmente lo hanno operato alle
gambe (sono stati trovati i fondi per l’intervento).
Nella
vita di un cooperante queste tre informazioni assumono un significato
coinvolgente, in grado di influenzare l’umore e a volte perfino le scelte
quotidiane.
Ho
scritto del Gatto diverse volte, ma chiaramente, ancor prima di diventare un
personaggio nominato nei miei racconti, il Gatto era un amico, un ragazzo in
situazione di strada con cui ho lavorato per un anno.
Un
cooperante dunque deve o può innamorarsi del suo lavoro, così come del paese
che lo ospita, consapevole del fatto che certe avventure possono fare male…ma
il vero amore mica finisce.
Ciao
Matteo