giovedì 23 giugno 2011

Il Capodanno Andino. Cronaca breve (dal tramonto all'alba).

Tematica: Il Capodanno Andino (notte fra il 20 e il 21 giugno). Una notte trascorsa sulle alture della Cordigliera Tunari (sopra Cochabamba), con un capo sciamano Kallawayas (sacerdote animista di cultura Andina), e con i rappresentanti di due comunità indigene della regione, per salutare il vecchio anno e ricevere le energie di quello nuovo.

Chiave di lettura: personalizzata ma fedele

Grado di approfondimento: relativamente mediocre ma accessibile (sarebbero molte di più le cose da dire o da sapere).

20 giugno 2011, ore 22:00

Usciamo di casa con la sensazione di lasciare un molo pacioso, ubicato sulla costa tranquilla e calda del lago. Nei nostri stomaci danzano charque e birra; nei nostri occhi fa le bizze uno stato sonnolento egoista e capriccioso; nella nostra immaginazione si fanno largo la voglia di “sapere”, la brama di “conoscere”, il bisogno di “sperimentare”. Sappiamo che ci aspetta una notte in alta montagna, che farà freddo, che assisteremo ad un rituale propiziatorio impostato sul momento in cui il sole (figura sacra) sorgerà facendo nascere il nuovo anno. Sappiamo che ci sarà da bere, perché il nuovo sole a quanto pare, lo si dovrà ricevere e salutare in uno stato “psicofisico-emotivo” leggermente alterato.

Cochabamba si muove, è un esodo, moltissime persone si stanno dirigendo verso la Piazza Principale, da li poi, diversi bus porteranno la folla in differenti punti sacri della regione. Il rituale non può avere luogo ovunque, in tutte la regione Andina ci sono una ottantina di luoghi che da millenni fungono da “altari” o aree sacre atte a contenere le energie dei rituali.

L’atmosfera nella Plaza 14 de Septiembre è rotonda ed accogliente, in grado di ricevere anche il “pellegrino” più stanco, o quello più sprovvisto di cultura o motivazione. Rappresentanti di due comunità indigene, gruppi informali di danza folclorica, musicisti da rituale, formano un enorme cerchio rotante, marciano a leggeri e silenziosi passi di una danza che non conosciamo, ma che genera calma. Il cerchio è una creatura lenta ed ansimante, il suo alito ha il sapore della zampogna (flauto di pan), i suoi passi sono influenzati dal pachidermico ritmo di tamburi in cuoio di lama. I battiti vitali delle percussioni tuonano lenti e piuttosto distanziati fra di loro, le zampogne sibilano morbide in tonalità differenti e perfettamente alternate, i membri del cerchio che stanno suonando uno strumento sono indicativamente una trentina, il resto delle persone si dedica unicamente al ballo e ai cori. Qualcosa ha preso il via.

Alcuni nostri amici boliviani iniziano ad “invitarci”, offrendoci dolci combinazioni di gassosa e Zingani (una specie di famosa grappa locale). Bevendo iniziamo a parlare, scoprendo che tutto il rituale non si concluderà con il sorgere del sole, ma si protrarrà fino all’ora di pranzo circa. Ascoltando questa informazione dico al mio interlocutore più vicino che di cibo non ce ne siamo portati; lui mi guarda semi stupito e sorridendomi mi da una pacca sulla spalla. Non capisco, ma butto giù un altro sorso.

Il pachidermico cerchio rotante e ansante esplode in un urlo acuto e vibrante, mani si alzano al cielo, nuvole fuggono spaventate, abbracci prendono forma; si capisce che è ora di andare.

Siamo con un piccolo gruppo di amici e amiche, il viaggio in bus inizia in maniera quasi frivola, con una eccedenza di battute, risate, bicchieri mai vuoti e spensieratezze. Ancora non ci rendiamo conto, ma nella parte anteriore del veicolo, ha preso posto la comunità autoctona di Tiquipaia, con il capo “sacerdote” animista, che gestirà tutto il rituale e che si occuperà di dialogare con il nuovo anno in arrivo, fedele alle rigide e complesse tradizioni del caso. Lo sciamano sarà aiutato dai capi comunità: una prima coppia (uomo e donna), che ha ricevuto l’onere di fungere da riferimento e rappresentanza per l’anno che sta finendo; una seconda coppia che questa responsabilità la riceverà durante questa notte di passaggi, conclusioni e auspici.

Man mano che il bus si addentra e ascende nella notte, scalando la montagna, le voci si affievoliscono, gli animi si calmano, forse si inseriosiscono. Nessun membro del nostro piccolo gruppo pensava che la destinazione fosse così alta; il mezzo non la smette di issarsi sulla Cordigliera Tunari, un tornante dopo l’altro, per la dissestata e strettissima strada sterrata, posata sul nulla e proiettata verso il buio. Ora tutto tace, il rumore è quello del motore affannato, la vista riserva uno spettacolo lunare e una prospettiva su una Cochabamba ormai lontana e illuminata in modo sonnolento. Sono le due di notte e ancora il valoroso catorcio sale, sale e sale. Poi le pendenze si fanno più dolci, la guida del saggio e tenace conducente meno dura e nervosa. Improvvisamente appaiono come fossero allucinazioni fugaci dei tori, dei lama, delle pecore, alcuni cani…uno qui e uno li, a volte sono solo gli occhi semi illuminati a riflettere la luce dei fari quasi morti del bus. Chi vede gli animali capisce che quassù ci vivono comunità contadine e allevatrici.

Raggiungiamo una zona pianeggiante e una voce proveniente dal davanti del bus mormora “siamo arrivati”…tutti la sentono.

Per qualche minuto, dopo che i motori dei quattro bus si sono addormentati, nessuno dice nulla, nessuno si muove, sembra che nessuno scende e affronta la gelida notte di altura. Invece, con nostra sorpresa, da altri mormorii capiamo presto che qualcuno era già sparito nel buio, o forse qualcuno era già li ad aspettarci, sta di fatto che un focolare enorme sta prendendo vita, posato all’interno di una conca semi protetta dai venti taglienti. Attorno a noi sembra non esserci nulla, ma invece c’è tutto.

21 giugno 2011 ore 03:00

Il fuoco è alto ed intenso, la musica ha ripreso a battere e respirare, la gente parla e beve accalcata attorno alle fiamme, come farebbero le pecore bagnate attorno ad un cumulo di paglia. I rappresentanti delle due comunità e il capo sciamano, preparano il luogo all’arrivo del sole.

Rum e zingani e chicha e vino e birra, l’atmosfera si fa mistica più del mistico, ma a parte questo fattore (che ognuno gestisce secondo le proprie voglie o predisposizioni), si percepisce una ondata di energie che si stanno avvicinando. Non c’è conto alla rovescia, il tempo non esiste, è qualcosa di più maestoso, lo si capisce soprattutto quando da Est, cominciano a farsi vive le prime lingue di luce screziate da colori intensi e ancestrali. Blu intenso, poi verde scuro, poi tonalità di rosso in sequenze mescolate, poi il lamento lungo e profondo di un corno avvisa che il nuovo sole è dietro la cresta e che manca poco.

Al nostro fianco, uno dei supervisori della cerimonia, mormora che non è contendo di quel colore, dice che il rosso rappresenta il sangue, aggiungendo però che può significare due cose: o che nell’anno che se ne sta andando ci sono stati troppi morti, o che il sangue scorrerà eccessivamente nell’anno che sta arrivando. Ascolto, lo guardo…e butto giù un sorsetto di fortuna.

Il sole è sempre più vicino, sembra quasi sia questione di centimetri, il calore da lontano spinge verso di noi correnti ventose ancor più gelide, ancor più penetranti, sono gli ultimi momenti di resistenza…poi arriva...e sembra un gigante di fuoco che si stira dopo essersi svegliato…una piovra in fiamme emersa dalla lava e dalla roccia…ha fame di noi, delle nostre emozioni.

La tradizione vuole che nei minuti successivi all’arrivo dei primi raggi tiepidi e lucenti, i partecipanti rimangano con i palmi delle mani aperte direzionati verso il sole, per salutarlo. Il fatto di ricevere le energie solari, con i palmi aperti, dovrebbe far percepire ai presenti come andrà l’anno che è appena iniziato. Ognuno pensa all’anno concluso e si fa degli auspici per il futuro.

Torna il silenzio, il fuoco crepita e la pelle delle nostre facce torna a rilassarsi. L’intensità di quei minuti diventa indimenticabile e si imprime nelle nostre memorie più trascendentali relative all’anno boliviano. Nessuno parla, molti non guardano nemmeno, barricati dietro a palpebre tremanti ed impressionate dal tutto; è l’opposto contrario a ciò a cui siamo abituati noi due. Il passaggio fra un anno e l’altro non è mai stato così lento, così calmo, così riflessivo…troviamo davvero il tempo per “sentirci”, senza dover scappare da una bolgia o doverci isolare da un gruppo di amici festanti o segretamente annoiati.

Torna a spezzarsi il silenzio, torna la musica e tornano i balli, le zampogne ansimano, il sole va ancora più su e in molti si rivelano reciprocamente i desideri espressi negli ultimi minuti (qui si può!).

Alcuni smettono di bere, è sufficiente…altri invece iniziano a farlo più intensamente. Come pere mature e polpose, diverse persone crollano, mentre altre perdono parzialmente il controllo di tono di voce o coerenza del lessico.

Le comunità indigene, con i loro capi spirituali, danno luogo al passaggio di rappresentanza, fra le due coppie di cui ho parlato all’inizio. Il primo uomo, dopo un breve discorso, passa il proprio Poncho al secondo, la prima donna fa la stessa cosa con la sua amica. Entrambe le coppie, nel discorso rivolto alla loro comunità, parlano di “resistenza”: dicono che le comunità devono resistere alla “città”, e che tutti dobbiamo capire che la “città” non rappresenta solo un luogo vivo e moderno in cui vivere, ma anche una metafora di fenomeni sociali e politici e spirituali. Il capo sciamano segue il tutto in silenzio.

Assistiamo fino alla fine al passaggio di rappresentanza e quando ci allontaniamo da quel punto della conca notiamo che a circa venti metri da noi sono arrivati due lama…i dubbi che avevamo sul momento del pranzo e sull’assenza di cibo, si dissolvono.

I due lama verranno sacrificati alla Pachamama (la madre terra), il loro sangue verrà rovesciato e tutte le loro interiora ad eccezione del cuore, verranno sotterrate.

Una femmina e un maschio, entrambi non sembrano spaventati. Il rispetto con il quale il Kallawaya e i rappresentanti delle comunità indigene, affrontano il momento del sacrificio, è armonioso e tranquillizzante. Il capo rito accarezza le loro teste e gli parla; gli animali sembrano conoscere il motivo per il quale sono li; ci guardano, la femmina si allunga sdraiandosi sull’erba, posando la sua testa ed il suo elegante e lungo collo, in segno di sottomissione. Si avvicinano i coltelli, una ragazza indigena piange. Dopo una accurata analisi e dopo diversi scambi di sguardi con i due nobili animali, il capo sciamano Kallawaya decide che il primo ad essere sacrificato sarà il maschio. Usando della brace odorante di K’oa, il capo sacerdote chiede il permesso alla Pachamama di compiere il sacrificio…fa passare le esalazioni sul manto dei due animali, formula frasi a voce bassa, butta un po’ di alcool attorno e sul corpo delle bestie…infine acconsente affinché l’atto abbia inizio. Bendano i lama con delicatezza, un uomo, forse l’allevatore che l’ha cresciuta, prende la testa della femmina e la bacia, la accarezza, le parla. Gli uomini con i coltelli invece, fanno scivolare le loro lame silenziose ed umili sotto alle mascelle del maschio, che con pochi e deboli fremiti si lascia sacrificare.

La sorte della femmina è la stessa alcuni minuti più tardi.

Subito dopo la morte dei lama, è indispensabile estrarre il loro cuore mentre sta ancora battendo. L’esperto sciamano analizza l’organo mente pulsa per le ultime volte, accarezzandolo con fiori di camomilla imbevuti di chicha.

In entrambi i casi, dopo aver guardato e bagnato entrambi i cuori, l’uomo afferma che l’anno sarà positivo, che nessuno si deve preoccupare di nulla.

La mattinata prosegue in due zone diverse della conca, in una prende forma una K’oa piuttosto grande, nell’altra si preparano le braci e le si sotterrano insieme a pietre, paglia e le carni dei due dignitosi animali sacrificati.

Il freddo torna a penetrarci, il cielo si copre con vaporose nuvole, nella conca cala una nebbia bagnata e grigia. Prima che la carne sia cotta, le due ragazze addette alla cerimonia passano fra di noi con due bacinelle piene del sangue dei due lama, facendo scorrere un dito macchiato sulla fronte di ognuno; questo gesto simbolizza un marchio, indica che noi eravamo presenti e che l’anima delle due creature sacrificate ci accompagnerà per tutto l’anno.

Masticare foglie di coca, bere sorsi d’acqua per diluire sostanze anomale nel sangue, guardare la gente attorno a noi, sentire che qualcosa di importante è successo, indipendentemente dalle credenze o le fedi che una persona può alimentare. Sentirsi sporchi solo superficialmente, sapere che una semplice doccia sarà sufficiente per placare questa sensazione.

Mangiamo la carne con riconoscenza, ricordando lo sguardo controllato e languido degli animali, è una sensazione strana eppure si fa accettare, si fa rispettare.

Il privilegio di aver potuto assistere ad un passaggio tanto significante quanto vibrante, ci arricchisce di esperienza e di racconti. La consapevolezza di aver ricevuto tanto in una sola notte, ci trasmette fiducia in noi stessi e nelle indiscutibili forze dell’universo.

Ripercorrendo la strada che ci separa da Cochabamba, questa volta in discesa, vediamo la città illuminata e abbracciata da una foschia bianca e giallognola. La sensazione è quella di essere scomparsi nella notte, riuscendo a superare lo spazio ed il tempo per alcune ore…anche se di ore non si può parlare, perché ogni termine di misura non ha avuto valore mentre aspettavamo il sole lassù.

Riapparire nel mondo dopo una notte come questa, e vedere Cochabamba, che era rimasta li, insieme ai suoi fenomeni sociali, politici e spirituali, è come tornare a leggere un romanzo a pagina 30, dopo essere sgattaiolati alle pagine finali, per vedere cosa sarebbe successo.

Lungi da noi la presunzione di “aver avuto delle illuminazioni eclatanti”, ma di certo la sensazione è quella di aver toccato e visto da vicino delle potenze naturali e delle armonie fra uomo e natura, che vivono e continueranno a vivere grazie alle tradizioni più antiche e alle simbiosi più originali e nonostante il progresso più insensato.

Un abbraccio

Matteo e Nicole

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